Buchi merdosi
Qualche tempo fa il Presidente americano Donald Trump ha offeso una serie di paesi africani e sudamericani chiamandoli shitholes—”buchi di merda”, per quanto la stampa italiana abbia preferito traduzioni leggermente più colte, legando il termine “dottamente” alle toilettes. L’episodio fa pendant con un’altra occasione quando l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, illustrando la superiorità culturale e religiosa dell’Occidente, ha candidamente spiegato che: “Non ci sono italiani che emigrano in Pakistan”. In entrambi i casi le persone serie hanno strillato come delle aquile—e la gente per strada e nei bar ha fatto spallucce, come per dire: “In che altro modo dobbiamo chiamare questi posti di merda?”
Mentre nessun Presidente dovrebbe permettersi espressioni del genere, resta un problema: come si dice shithole in maniera accettabile? Perché tra i circa duecento paesi sulla Terra ce ne sono di questi buchi, e non pochissimi. A volte occorre parlarne. Esistono ovviamente gli eufemismi, che però tendono a fuorviare—il loro scopo del resto. Tra questi, il più riuscito in epoca moderna è probabilmente “Terzo Mondo”: superato, ma ancora utilizzato di frequente, in parte perché non significa niente di facilmente identificabile. L’unico problema è che non si riferisce ai paesi sottosviluppati. Il termine è stato coniato negli anni Cinquanta del secolo scorso dall’economista francese Alfred Sauvy per descrivere l’assetto geopolitico emerso dopo la Seconda Guerra mondiale. Doveva essere una definizione politica, non economica. Per Sauvy, il Primo Mondo comprendeva quei paesi dove vigeva l’economia di mercato, il Secondo il blocco socialista e il Terzo Mondo i paesi non-allineati. Per un francese, questi ultimi dovevano essere essenzialmente paesi africani—quelli di cui la Francia avrebbe continuato a prendersi cura, com’era nel suo dovere coloniale.
Con lo spostamento del Tiers-mondisme di Sauvy verso altri significati, è diventato necessario rinnovare la terminologia. Popolarmente era considerato sufficiente parlare di “paesi poveri”, ma all’espressione—per l’appunto “popolare”—mancava di autorevolezza. Chi si occupava professionalmente della tematica è arrivato a preferire il termine “paesi sottosviluppati”. “Suonava” e ha corso a lungo. Com’è il caso con tutti gli eufemismi però, dopo qualche tempo ha cominciato ad avere troppo nettamente il senso di ciò che doveva mascherare.
Così, si è arrivati a “paesi in via di sviluppo”—a modo suo un capolavoro. Siccome il “sottosviluppo” di prima poteva sembrare un giudizio definitivo, una condanna, la nuova espressione, più positiva, più allegra, poteva invece infondere fresche speranze. Ora, anche questo termine sa di muffa. Tarda però a emergere un altro candidato. Uno dei motivi è che con i decenni della vituperata globalizzazione, molti dei paesi in questione si sono effettivamente sviluppati. A tal punto che, a sentire espressioni del genere da qualche “development economist” governativo o di un ONG, ai paesi soggetti viene da rispondere “sottosviluppata sarà tua sorella”. Di quelli rimasti ancora com’erano—gli insuccessi—si preferisce parlare poco o, dovendolo fare, chiamarli per nome. Il giro è completo. Siamo tornati a “shitholes”. Ci dev’essere un modo più elegante per dirlo però.