C’era una volta la Turchia europea
Sul Corriere della Sera, a pagina 2, Lorenzo Cremonesi, inviato a Istanbul: “Un kamikaze alla Moschea Blu”, “Il premier: attentatore membro dell’Isis. Erdogan: ‘Siamo il primo obiettivo dei terroristi. Li sconfiggeremo tutti’”. E’ difficile -scrive Cremonesi- pensare a un luogo più rilevante e simbolico nella millenaria e travagliata relazione tra Oriente e Occidente che Sultanahmet, agia Sofia e la Moschea Blu. Viene automatico inserire il nuovo attentato nella serie che sempre più insistentemente ha colpito gli stranieri (dal Bardo di Tunisi agli attacchi alle Pramidi): le prime ricostruzioni dei media turchi raccontano che nella piazza c’era poca gente, dunque chi ha colpito i turisti li ha cercati e attesi. Il primo ministro Davutoglu ha puntato con decisione il dito sull’Isis: nell’ultimo anno -scrive Cremonesi- la Turchia è sembrata propensa a porre fine a quell’atteggiamento di relativa passività nei confronti di Isis e dell’estremismo sunnita che le aveva attirato forti critiche anche tra gli alleati Nato.
E a pagina 3 in grande evidenza una raffigurazione dettagliata della Moschea Blu, cui è dedicato l’articolo di Roberto Tottoli: “Il simbolo imperiale dei Sultani ottomani nel centro dell’antica Costantinopoli”.
Sul Corriere della Sera in prima l’analisi di Franco Venturini: “La Turchia delle troppe parti in commedia, ancora. Il turismo che non deve portare più sollievo economico, ancora. Gli obiettivi del terrorismo inseguono ormai la logica della disgregazione globale”; “la Turchia di Recep Tayyp Erdogan resta pilastro della Nato ma è diventata un tempio dell’ambiguità e non stupisce che venga colpita a ripetizione lungo due binari che continuamente si intersecano: la Siria e i curdi”. La Turchia -sottolinea Venturini- “è un campione sunnita, come l’Arabia saudita ha le ‘sue’ milizie che combattono Assad e talvolta anche l’Isis, odia l’Iran sciita e con la Russia, che sta da quella parte, ha creduto di regolare i conti abbattendo un cacciabombardiere di Mosca. In un simile groviglio gli attentati più recenti erano stati spesso anticurdi e perpetrati dall’Isis, fino alla strage di Ankara”; “può darsi che la nazionalità delle vittime, quasi tutte tedesche, abbia un significato. Ma va per lo meno notato che questo, per la prima volta da un certo tempo, non è stato un attacco contro i curdi locali legati a quelli di Siria”.
Su La Repubblica è Silvia Ronchey a scrivere dei luoghi colpiti: “La piazza dei cavalli, il simbolo insanguinato, qui i massacri hanno segnato la storia”, “Nell’antico Ippodromo di Costantinopoli, l’11 gennaio del 532, la rivolta ‘Nika’ provocò una strage. Nel 1826 quella dei Giannizzeri. E nel 1909, un’altra sollevazione”.
Su La Repubblica l’articolo di Marco Ansaldo dà conto delle accuse lanciate dal presidente Erdogan “all’esterno”: “l’altro ieri lo faceva contro i militari, contro i curdi, poi gli alleati islamisti. Oggi allunga la lista al terrorismo e agli ‘intellettuali stupidi’. Ma per molti osservatori indipendenti è proprio l’ambiguità mostrata dal suo governo con il Califfato nero, durata quasi tre anni e giocata sul filo di un’acquiescenza criticata da molti, a essere considerata come la causa reale dell’attentato nel centro di Istanbul”.
Su La Repubblica ne scrive anche Paolo Garimberti: “Ankara e Berlino nel mirino”, “La politica di Erdogan sta diventando una spina nel fianco di Nato ed Europa”.
Su La Stampa, a pagina 3, l’articolo di Giordano Stabile: “Il killer saudita sfuggito ai rada e la rete dei kamikaze del Califfo”, “Altri quattro terroristi pronti a colpire : la cellula regina ad Adiyaman”. Secondo gli inquirenti turchi l’autore dell’attacco era un saudita di 28 anni, arrivato da pochi giorni dalla Siria. Il vicepremier Kurtulmus ha detto che era un affiliato dell’Isis, ma “non era nella lista dei nomi da fermare”. Stabile sottolinea che la Turchia è stata la principale retrovia dell’isis, ma ora le cose stanno cambiando e questo potrebbe aver portato al primo attacco diretto contro gli interessi turchi: la svolta è arrivata alla fine di giugno, quando i guerriglieri curdi hanno strappato all’Isis la città sul confine turco-siriano di Tall Abyad. Da allora è cominciata una serie di attentati suicidi che hanno preso di mira i curdi e poi, a partire dagli ultimi due mesi, la Turchia. Il primo è avvenuto a Suruc il 21 luglio: ha causato oltre 30 morti. Il più grave, quello di Ankara, il 10 ottobre, con oltre 100 vittime. L’inchiesta seguita a quell’attentato ha portato allo smantellamento di una rete: la cellula Isia aveva come base Adyaman, città del Sud di 200mila abitanti, molto conservatrice.
Su La Stampa un articolo di Domenico Quirico: “Il Sultano contro il Califfo, scontro per l’egemonia nell’Islam”, “La Turchia ha permesso all’isis di sopravvivere, ma per Al Baghdadi è corrotta e apostata”.
Alberto Negri, nella sua analisi sul Sole 24 Ore, scrive che “l’Isis, rivendicando l’attentato ha consegnato la sua dichiarazione di guerra alla Turchia. Finora il Califfato aveva attaccato soprattutto i curdi puntando a espandere il divario tra la maggioranza sunnita e le minoranze curde alevite. Ma ora sta perdendo terreno in Iraq e Siria, cerca una nuova area di influenza e si assume il rischio di scontrarsi con la Turchia, storico membro della Nato che con Erdogan ha coltivato ambizioni di espansionismo neo-ottomane corteggiando i Fratelli musulmani ma anche i jihadisti utili alla sua causa”; “il jihadismo, pur affondando le radici in correnti come il wahabismo saudita o il salafismo, ha elaborato una sua sub-cultura diretta sia contro i Paesi musulmani che quelli occidentali” e punta a “eliminare contatti tra occidentali e musulmani, colpendo ovviamente anche il turismo, una fonte importante di occupazione e valuta. La colpa non è soltanto dei jhadisti ma anche di coloro che ne hanno favorito l’espansione. Gli stessi stati che hanno favorito in varie forme l’applicazione della sharia, la legge islamica, hanno contribuito al legame sempre più stretto tra stato e religione”; “rischiano grosso gli apprendisti stregoni del fronte sunnita, dalla Turchia all’Arabia saudita. La Turchia del presidente Tayyp Erdogan per quattro lunghi anni ha dato corda ai jihadisti che voleva usare per abbattere il regime di Assad: la frontiera con la Siria era diventata l’autostrada della jihad’ con il passaggio di migliaia di combattenti, molti dei quali si sono arruolati prima nel gruppo qaedista di Jabat al Nusra e poi nel Califfato”.
Sul Manifesto, a pagina 2, la corrispondenza di Fazila Mat da Istanbul dà conto anche delle reazioni delle altre forze politiche. Il Chp, Partito repubblicano del popolo, principale forza di opposizione: “Vi abbiamo esortato più volte a non trascinare la Turchia nella palude del Medioriente”; l’Mhp, Partito di azione nazionalista, con Bahceli, ha invitato Ankara a “reagire pesantemente” punendo “i mandanti, gli esecutori e i collaborazionisti che operano contro l’umanità e che si annidano nelle case-celle (così chiamate le case dove i membri dell’Isis abiterebbero in gruppi di 12, ndr)”. Un’altra condanna è arrivata da Demirtas, co-leader del partito filo-curdo democratico dei Popoli (Hdp): “Vogliamo che sappiate che lotteremo fino all’ultimo respiro finché i responsabili non verranno resi noti”. E Fazila Mat sottolinea che la lotta del governo turco contro l’Isis è sempre proseguita parallelamente alle operazioni effettuate contro due organizzazioni considerate da Ankara terroristiche: il Pkk e il Dhkp-C (Fronte rivoluzionario per la liberazione del popolo), “con un bilancio finale di detenzioni a carico dell’Isis in netta minoranza”.