Jihadisti terrorizzano Bruxelles
“Colpiscono in Belgio perché ormai somiglia a uno Stato fallito”, dice al Corriere della Sera il politologo francese Gilles Kepel: “I terroristi si muovono particolarmente bene dove le strutture statali sono deboli. Lo abbiamo visto in Iraq e in Siria: Isis prospera nei cosiddetti Stati falliti. E quello belga è uno di questi. La questione linguistica lacera la società belga. Lo scontro fra fiamminghi e valloni francofoni ha ormai raggiunto livelli da guerra civile strisciante. Siamo arrivati al punto che le due polizie non si parlano fra loro. Analisti e politici europei continuano a invocare maggiore cooperazione tra le forze di sicurezza dei Paesi membri, senza rendersi conto che in Belgio questa cooperazione non esiste neppure tra quartieri di lingua diversa nella stessa capitale Bruxelles”; “inevitabilmente ci saranno altri attentati. Nel caos sociale belga i terroristi sono ormai una realtà profondamente radicata sul territorio e trovano sostegno in piccole comunità islamiche omogenee e coese. In luoghi come Molenbeek le attività criminali del traffico della droga sono legate ai gruppi del jihadismo, banditi comuni ed estremismo religioso vanno spesso a braccetto”.
Gli attentati -chiede Lorenzo Cremonesi- vanno messi in connessione con l’arresto, venerdì scorso, di Salah Abdelsalm? “Direi di sì. Anche se è ovvio che i terroristi avevano già pronte azioni del genere, si erano preparati e addestrati per compierle”; “per Isis il comportamento di Abdelslam è stata una sconfitta totale. Doveva morire assieme ai suoi compagni”, invece ha avuto paura, è scappato e sta collaborando.
Insomma, incalza Cremonesi, per Isis si trattava di rilanciare la propria immagine? “Assolutamente sì. Oltretutto Isis è in difficoltà da dopo gli attentati del 13 novembre” a Parigi, perché tra le vittime c’erano anche giovani arabi, giovani musulmani e la cosa è stata criticata anche nei circoli estremisti islamici: “un conto è infatti colpire degli obiettivi precisi che offendono l’Islam, come poteva essere Charlie Hebdo. E un altro sparare nel mucchio. Isis oggi ha difficoltà a trovare reclute. Non sa come parlare alle masse musulmane”.
Il tema torna anche in un’analisi di Francesco Guerrera su La Stampa: “Belgio, ventre molle di un Continente che non coopera”. “Il piccolo Belgio -scrive- non è mai stato in grado di dotarsi dei servizi di intelligence e polizia di Paesi come la Francia e l’Italia, per non parlare della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. Ci hanno provato, i belgi, dopo gli attentati di Parigi, mettendo circa 39 milioni di euro e 200 poliziotti nel piano del ministro dell’Interno Jan Jambon per ‘ripulire’ le banlieue depresse di Bruxelles. Non ha funzionato. Lo stesso Abdelslam, il prodotto di quei sobborghi dove la disoccupazione, l’alienazione e la sperequazione sociale regnano sovrane, avrebbe dovuto partecipare a questi attentati”, “ma invece di guardarsi intorno, il Belgio si è crogiolato nella cattura del ‘sospettato numero uno’. Lo sanno bene i tifosi di calcio: sei molto più vulnerabile quando hai appena segnato un goal. Ma non sarebbe giusto accusare solo il Belgio. La famosa cooperazione europea e anche internazionale giurata dopo Parigi è venuta clamorosamente a mancare ieri mattina”.
“’La Molenbeek di oggi? E’ come il Londonistan degli anni ’90’”, dice l’islamologo Mathieu Guidère, franco-tunisino che insegna all’università di Tolosa: “per anni a Londra operava una filiera di terrorismo islamico, senza che il regno Unito guardasse davvero in faccia questo problema. Solo dopo gli attentati del 2001, gli Stati Uniti hanno fatto pressioni su Londra perché reagisse. A quel punto gli inglesi sono divenuti duri con loro. Che poi hanno reagito, con gli attentati del 2005”. In Belgio è avvenuta la stessa cosa? “In un certo senso sì. E’ uno Stato debole e i jihadisti hanno approfittato a lungo di questo ‘disinteresse’ delle autorità nei loro confronti. Poi, dall’anno scorso, le cose sono cambiate, dopo gli attentati di Francia”. Cos’è successo? “Parigi ha iniziato a fare pressioni sul Belgio, perché cambiasse strategia. E andasse davvero a vedere cosa stesse succedendo a Molenbeek”. Gli attentati sono stati “un messaggio preciso” lanciato al presidente Hollande e al premier belga Michel, dopo l’annuncio della cattura di Abdelslam, volevano mostrare che “i jihadisti, quelli veri, che sanno combattere, sono ancora in giro e possono colpire quando vogliono”.
Ancora su La Stampa il “retroscena” di Francesco Semprini ed Eric Josefz: “Il gruppo Molenbeek braccato aveva già pianificato l’attacco”, “I terroristi hanno agito perché gli 007 erano ormai sulle loro tracce”. “Colpire prima di essere colpiti”, questo è stato l’ordine di scuderia all’origine della nuova offensiva dell’Isis. Dice Jean-François Daguzan, vicedirettore della Fondazione per la Ricerca Strategica di Parigi: “E’ probabile che i complici di Salah abbiano capito che la rete era bruciata e la pressione stava per abbattersi su Molenbeek. Hanno capito che il Belgio non è più una terra sicura”.
Da Washington, l’analisi di Lorenzo Vidino, sulla stessa pagina: “Le cellule jihadiste europee addestrate come commando capaci di colpire ovunque”. La verità -scrive- è che il Belgio è sotto scacco da più di un anno: “i servizi parlano di circa 600 foreign fighters che dal Belgio sono andati a combattere in Siria, il numero proporzionalmente più alto tra tutti i Paesi europei. Più di un centinaio di essi sono tornati in patria, ma solo pochi sono stati arrestati mentre la maggioranza, mancando prove certe che ne consentano l’arresto, possono solo essere monitorati da forze di polizie e intelligence dalle scarse risorse e frammentate dalle divisioni politiche dello Stato federale belga”. Se fino a poco tempo fa la minaccia per l’Europa era costituita “per lo più da attori solitari”, ora la paura più forte e concreta “è quella di commando della morte addestrati in Siria in esplosivi e tattiche paramilitari e pronti all’attivazione”.
Su La Repubblica ne scrivono Carlo Bonini e Giuliano Foschini: “Così ha colpito la cellula belga di Salah”, “Tutti gli errori dell’intelligence di Bruxelles. E il ruolo di Abrimi”. Mohamed Abrimi è nella lista dei fuggitivi, è l’uomo latitante da quattro mesi ripreso dalle telecamere di sorveglianza di un distributore di carburante, insieme a Salah Abdelslam poco prima dell’attentato del 13 novembre, lungo l’autostrada Bruxelles-Parigi. Perché hanno agito ora, i terroristi? Dalle prime informazioni -scrivono Bonini e Foschini- è ragionevole pensare che il gruppo stesse pianificando l’attacco da tempo. E che nella pianificazione fosse coinvolto anche Salah Abdelslam. La decisione di accelerare, più che una vendetta per il suo arresto, sarebbe la verosimile conseguenza del blitz a Forest del 16 marzo scorso, durante il quale è morto Mohamed Belkaid, algerino, 35 anni. Belkaid è infatti “un pezzo grosso dell’organizzazione e partecipa alla pianificazione ed esecuzione delle stragi del 13 novembre. Peraltro, con il nome di Samir Bouzid, era stato controllato a settembre del 2015 in compagnia di Salah Abdelslam. E la sua impronta digitale era stata rilevata sul telefono cellulare gettato nel cestino davanti al Bataclan”. Più avanti scrivono che “se fossero confermate le indiscrezioni di queste prime ore, le responsabilità dei servizi di sicurezza belgi sono consistenti, al punto che ieri pomeriggio l’argomento è stato oggetto di valutazioni da parte dei vertici di tutte le intelligence internazionali. Non si comprende infatti perché, dopo l’arresto di Salah, il livello di allerta fosse rimasto a 3, nonostante molti indizi indicassero una minaccia imminente. Né perché, ancora lunedì pomeriggio, i procuratori belgi e francesi avessero deciso una pubblica passerella per incassare il plauso di un’indagine su una rete evidentemente ben lungi dall’essere stata disarticolata. Ancora una volta, il Belgio appare come il buco nero della sicurezza europea. Come dimostrano i 4 mesi necessari per venire a capo di Salah Abdelslam, latitante in casa propria, a Molenbeek. Come dimostra la sottovalutazione degli allarmi arrivati, tre settimane fa, alle intelligence europee sul rischio di ‘attentati imminenti’ a Bruxelles. Un warning ribadito in un nuovo e preciso fonogramma sabato scorso (si parlava di luoghi frequentati da stranieri), dopo l’irruzione nell’appartamento di Forest: la bandiera dell’is, il kalashnikov, il libro sul salafismo ma soprattutto i detonatori e le istruzioni per confezionare ordigni”.
Su Il Fatto Quotidiano: “L’ultima beffa e gli allarmi inascoltati: colabrodo belga”, “Le forze di sicurezza si sono dimostrate incapaci di seguire e fermare le cellule islamiche che dopo aver compiuto gli attentati in Francia sono tornate a colpire”, scrive Leonardo Cohen, riferendo anche dell’avvertimento lanciato giorni fa dagli Stati Uniti alle sue ambasciate europee.
La sicurezza nella Ue
“Ue in ordine sparso sulla sicurezza” è il titolo di un’analisi di Giuseppe Chiellini su Il Sole 24 Ore: “E’ dall’attacco a Charlie Hebdo a gennaio 2015 che i vertici delle istituzioni europee sono consapevoli che non c’è più differenza tra difesa da minacce esterne e sicurezza interna per 500 milioni di cittadini europei. Questo legame è ripetuto fino alla noia nei documenti e nelle decisioni sulla lotta al terrorismo e sulla sicurezza. La realtà, però, è che la sicurezza interna ed esterna dell’Unione europea resta affidata sostanzialmente ai governi nazionali. Questo significa che esistono 28 servizi segreti che rispondono ciascuno al proprio governo, gelosi dei propri contatti e delle proprie informazioni, diffidenti gli uni con gli altro e tra i quali la collaborazione è difficile e macchinosa”. Le debolezze e gli sprechi sono evidenti anche sul fronte della difesa: “con 28 eserciti nazionali la Ue, nel suo complesso, è seconda solo agli Stati Uniti per spesa militare. Ma è ben lungi dall’essere la seconda potenza militare. Il primo tentativo di costituire un esercito comune europeo risale al 1950, con la proposta francese della Comunità europea di difesa, affondata dagli stessi francesi qualche anno dopo. Da allora gli Stati membri non sono andati oltre una modesta collaborazione intergovernativa, un ‘patchwork di accordi bilaterali e multilaterali’ circoscritti, come si legge in qualche documento della Commissione”.
Su Il Foglio, in un colloquio, il ministro della Giustizia Andrea Orlando dice: “In Europa non riusciamo a dotarci di norme comuni ed efficaci. E la differenziazione normativa tra Paesi complica le indagini, complica la cooperazione giudiziaria e dà spazi imprevedibili al terrorismo. Lo dico con chiarezza: non servono leggi più dure, servono leggi più simili tra Paesi, serve lo scambio di informazioni, e serve una procura europea antiterrorismo”, “Abbiamo visto Paesi apparentemente intransigenti, che reclamano durezza nelle sanzioni, Paesi come l’Ungheria, che però all’atto pratico hanno dimostrato paurose debolezze. Il terrorista del Bataclan, Salah, era stato fermato tra Austria e Ungheria e non ne era stata riconosciuta la pericolosità. Noi in Consiglio europeo abbiamo proposto più integrazione, ma ci sono resistenze”.
Su Il Fatto Quotidiano un’analisi di Stefano Feltri: “Antiterrorismo Ue, nessun impegno è stato mantenuto”, “Dopo la strage di Parigi i capi di governo avevano promesso di coordinarsi contro i terroristi. Ma non sta funzionando”. Per quel che riguarda le burocrazie: “seguire i sospetti è difficile: le banche dati di visti, voli e impronte non sono connesse”.
Come reagire al terrorismo jihadista
Su La Repubblica un intervento di Marek Halter sul tema “il dilemma della convivenza”. “I musulmani -scrive- non possono lasciarci soli a difendere la democrazia”, “A Molenbeek, il quartiere islamico di Bruxelles, la polizia è stata attaccata mentre arrestava Salah Abdelslam. In Francia sale la paura per chi potrebbe nascondersi nelle sue sterminate banlieue. Cresce l’intolleranza: non è solo Donald Trump a invitare l’Europa e chiudere le frontiere, ora anche molti intellettuali si interrogano se il nostro modello di libertà sia ancora possibile e quale sarebbe l’alternativa”, “per vincere questa guerra asimmetrica servono le voci di una maggioranza che è pacifica ma troppo silenziosa”.
Di fianco, le opinioni di Boualem Sansal, scrittore algerino (“Troppo buonismo, adesso la risposta deve essere militare”), di Tahar Ben Jelloun, intellettuale marocchino (“Abbiamo reagito tardi, la radice dell’odio è nell’apartheid sociale”) e del filosofo Massimo Cacciari (“Il filo spinato non serve, bisogna lavorare sui loro conflitti interni”, “c’è una guerra civile interna all’Islam e una guerra entro i confini europei”, serve lavorare “sulle divergenze strategiche, che pure ci sono, all’interno dell’Islam facendo una buona politica sull’emigrazione, aiutando economicamente i Paesi che lottano contro l’Is”).
“Siamo in guerra, è ora di essere uniti ed estirpare il cancro dell’Isis”, dice Silvio Berlusconi con un intervento su Il Foglio: “è tempo di mettere da parte i labili distinguo e gli egoismi nazionali”, “Bisogna che i governi dell’Occidente capiscano che c’è un solo modo per risolvere la situazione: andare ad estirpare il cancro dell’isis alla radice, con una coalizione che, sotto l’egida dell’Onu, riunisca Europa, Stati Uniti, Russia, Cina e i Paesi musulmani moderati ed intervenga militarmente per eliminare la fabbrica della morte in Iraq e bloccare i conflitti in Siria e in Libia che generano le ondate migratorie che si stanno abbattendo sui confini europei”.
Su Il Giornale Magdi Cristiano Allam: “L’attacco al volere dell’Europa: così l’islam vuole sottometterci”, “I terroristi sono solo la punta dell’iceberg, costituito invece dalla religione musulmana. I jihadisti ottemperano a ciò che Allah prescrive nel Corano e che predica Maometto”, “il tracollo demografico anticipa la fine della nostra civiltà liberale”.