Istruzione e cultura nel paese del “come se”
Più passa il tempo, più vedo cose, più ci penso e più mi pare che la peculiarità dei mali di questo paese non stia tanto in quello che vi succede o non vi succede. In fondo, stando agli accadimenti, succedono (o non succedono) in Italia più o meno le stesse cose che succedono (o non succedono) in gran parte del mondo occidentale. La cosa tipica, e drammatica (o comica, come ogni cosa drammatica vista col canocchiale rovesciato), è piuttosto l’assoluta indifferenza di fondo con cui ci si comporta come se qualcosa succedesse quando non succede, o non succedesse quando succede. L’importante è che una cosa venga annunciata, proclamata o semplicemente supposta. In questo modo ogni tipo di analisi non accede praticamente mai al livello della realtà, e al suo concatenamento di cause ed effetti, e quindi niente può mai essere posto al centro di un profondo processo di rinnovamento ed evoluzione. Ecco questa rubrica, il cui sottotitolo potrebbe essere a tutti gli effetti “Il paese del come se”, avrebbe la timida ambizione di fornire di volta in volta, qualche spunto di riflessione su questa tipicità del carattere italico, in chiave provocatoria.
Gli esempi si possono sprecare, a partire da uno dei primi livelli di accesso alla vita di un società: l’istruzione.
Con la più assoluta indifferenza rispetto ai fatti reali, si considerano le scuole come se veramente istruissero i giovani e le famiglie si comportano con i figli come se effettivamente andassero a scuola per istruirsi e prepararsi alla vita sociale e consegnano i figli alle scuole come se questi fossero luoghi sicuri. Di conseguenza si assegnano le “maturità”come se i giovani uscissero dalle scuole effettivamente maturi in qualcosa, come se si non si fosse assolutamente coscienti che gran parte degli studenti che hanno fatto il liceo classico sanno poco o più probabilmente quasi niente di latino e greco (ma anche di italiano…), quelli che hanno fatto il liceo scientifico sanno poco o niente di matematica e fisica, quelli che hanno fatto ragioneria sanno poco o niente di ragioneria, ecc. E soprattutto tutto hanno imparato fuorché cosa sia la maturità.
Proseguendo, si considerano le università come se effettivamente fornissero una formazione di alto livello e la verificassero e la certificassero; e si sono fatti e si fanno scioperi come se il problema fosse il diritto all’istruzione universitaria per tutti come se invece il problema non fosse che questo diritto non c’è per quasi nessuno perché l’istruzione universitaria in molti casi è un niente; e infatti si chiamano “dottori” i laureati come se tutti fossero esperti e competenti di quel che teoricamente dovrebbe aver studiato, ma che non hanno studiato. Per esempio, lo sappia chi non lo sa: chiamiamo dottori in filosofia molti che non hanno mai letto un classico di filosofia dall’inizio alla fine e che quel che sanno di Kant lo devono a Wikipedia. Del resto, si finge anche di non sapere che la carriera accademica è un percorso a ostacoli che niente ha a che vedere con il merito, gli studi, le capacità: anzi, si sa benissimo ma ci si comporta come se si selezionassero in effetti per la docenza i soggetti più adatti e più meritevoli.
Non per caso, le riforme dell’istruzione e dell’università sono sempre concentrate su aspetti economici ed organizzativi e su metodi didattici come se il problema fosse sempre il metodo e non l’obbiettivo, il rapporto, assai più complesso, tra istituzione, docente e discente e la finalità reale che l’istituzione scolastica dovrebbe porsi (e raggiungere) nell’ambito più complesso del suo ruolo nella società. Ma ovviamente si prosegue, di riforma in riforma, sempre con gli stessi correttivi “tecnici”, come se non fosse evidente che tutte le riforme da vent’anni in qua sono state solo peggiorative, se non distruttive; ma nessuno si preoccupa di misurarne gli effetti, come se fossero state buone o non buone esclusivamente a seconda della posizione politica o ideologica di chi esercita di volta in volta il giudizio.
E dire che proprio dalla scuola, e solo da lì, si può provare a invertire la rotta della dequalificazione continua di ogni processo di questo paese; a patto che non chiudiamo gli occhi, facendo come se non fosse quel che effettivamente è: la porta d’ingresso di una realtà real-virtuale in cui niente è come diciamo (e vorremmo) che sia.