21 Novembre 2024
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Athos Bigongiali, Una città proletaria, MdS edizioni 2016, pag. 192, € 12,00.

Pubblicato nel 1989 da Sellerio, con una riedizione “riveduta e corretta” del 1990 su richiesta della stessa Elvira Sellerio, divenuto spettacolo teatrale nel 1991 e ispiratore di un’opera lirica nel 1992, Una città proletaria, ora in edizioni MdS, per ammissione dello stesso Bigongiali, è un romanzo fortunato.

Il romanzo di Bigongiali meritava davvero fortuna. Attraverso figure di narratori su cui nessuno solleverebbe un dubbio tanto sono verisimili, si ricostruiscono il clima e le tumultuose vicende, attraverso una vasta galleria di personaggi, dei primi quindici  anni del 1900 a Pisa. Periodo storico della bella epoque, periodo del governo Giolitti con la sua neutralità in materia di scioperi e le aperture sui diritti, ma anche ombre lunghe che sono rimaste a modello negativo nella storia politica del nostro paese.

Bigongiali, come lui stesso scrive, ha fatto approfondite ricerche in Biblioteche e Archivi,  nelle collezioni di giornali d’epoca della Biblioteca Universitaria, ha attinto a studi importanti ed a tesi di laurea, per ricostruire il contesto.

Pisa era la terza città più industrializzata d’Italia, e le facevano corona le attività di altre zone industriali della Toscana. Ma era anche covo di anarchici. Dagli archivi emerge, per esempio,  che Priscilla Poggi Fontana, quarantenne anarchica pisana “vestì di rosso e di nero e non vi fu corteo che non conobbe vetrine rotte ed espropri, poiché -era la spiccia spiegazione agli indignati proprietari-  in tempo d’Anarchia tutto è gratis’’.

Questa città di libero pensiero è luogo di gente speciale, che si distingue per dignità in ogni gesto, pur nella modestia dell’abbigliamento: quasi tutti proletari, operai di fabbrica, piccoli artigiani, braccianti, lavoranti a domicilio, garzoni di bottega, contadini senza più mestiere, vagabondi. Gente che pensava con semplicità, anticlericale fino al midollo, che lottava contro le “nefandezze dei religiosi”, disertava le urne per protesta, cercava miglioramenti sociali, perché “i pisani faticavano per paghe irrisorie nelle numerose  fabbriche del cotone, del vetro e delle ceramiche, e nelle migliaia di opifici che il Ministero si ostinava a classificare come industrie”. Le donne lavoratrici erano una grande componente di questa forza anarchica, erano le fabbrichine,  addette ai rumorosi telai meccanici, con orari disumani.

Pisa era luogo di cultura, con l’ Università ed i suoi nomi illustri, luogo di cura per il suo clima mite con il salino che arriva dal mare. E non lontano, a Boccadarno, D’Annunzio faceva parlare di sé, delle sue originalità e dei suoi amori.

Fondamentalmente una città dove il popolo ha pensato di poter governare se stesso, senza “né Dio né padrone”, e in questo ha messo tutta la sua determinazione, andando contro le leggi, rischiando e sperimentando il carcere. Anarchici, “individualisti per vocazione, essi accettavano anche il comunismo in quanto voleva “una società senza classi che avrebbe riconciliato e armonizzato, e perciò stesso esaltato, tutte le individualità e le valenze umane”. Vivevano nella scia del pensiero e dell’agire di Pietro Gori, avvocato e poeta, cavaliere dell’ideale, che prospettava  un “avvenire di redenzione per tutti i reietti del mondo”.

L’umanità è malata, è stato già scritto da tempo, e non stupiscono gli scandali nelle Banche, anche allora, con i sigilli ai  libri dei conti.

Il momento storico preso in considerazione vede il progressivo passaggio dal lavoro manuale a quello meccanico, con conseguente calo degli occupati. Allora come adesso il progresso fa le sue vittime. L’arma dello sciopero dilaga, e le fiumane di scioperanti non avanzano per le vie della città senza fare danni. Le donne con loro, ognuna una novella Kinzica. Il primo sciopero generale della storia d’Italia è a Pisa, nel 1904, una vera insurrezione, che segna i “primi veri passi della città verso un sentire collettivo” e proprio da questo sentire scaturiscono solidarietà ed aiuto ad altri proletari che lottano fuori della Toscana.

Sono antimilitaristi, vogliono pace e amore universale perché la guerra è l’iniziativa “più scellerata e al tempo stesso più calamitosa che ci sia”

Smascherano il malaffare dei governanti, dei re, dei capitalisti, che sostengono il militarismo e la guerra, quelli che “obbligano il proletariato a vivere come una bestia da soma, lo costringono a cercare umilianti fortune in terre lontane” e trasformano le loro menti in menti assassine. “Non c’è paese al mondo che chiamano civilizzato che non prepari la conquista e già insanguini le terre altrui – dice  Fontana Jessa, una delle voci narranti, figlia di Ettore e Poggi Priscilla- Secondo lei non basta fare propaganda di pace ma è necessaria una ribellione “al militarismo, alla sua casta, alla sua ideologia”.  E’ ritenuta  pericolosa per le sue idee sovversive.

Anche nello sciopero del 1913 le donne sono in prima fila, del resto “Pisa ha le donne più coraggiose d’Italia- dice Josè, altra voce narrante-. Anzi, pensateci bene, Pisa è come una città-donna…se lo vuole, può educare bene i propri figli e fa impallidire il cuore dei potenti”

Libro che supera i confini temporali, che ci porta direttamente al qui e ora, che coinvolge per la struttura, che incuriosisce per la varietà delle voci e ci regala uno splendido spaccato di vita, guidandoci per le vie, le piazze e i lungarni di primo novecento, tra odori di umanità e di lavori ormai dimenticati.

E chiarisce a chi scrive le radici della propria educazione e la fa sentire orgogliosa di essere pisana.

 

Marisa Cecchetti

Marisa Cecchetti vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato a varie riviste e testate culturali. Tra le sue ultime pubblicazioni i racconti Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012), il romanzo Il fossato (Giovane Holden 2014), la silloge Come di solo andata (Il Foglio 2013). Ha tradotto poesie di Barolong Seboni pubblicate da LietoColle (2010): Nell’aria inquieta del Kalahari.