Se Pasolini si fosse fatto crescere i capelli.
Sarà perché l’ho sempre letto come uno stimolo non scontato, ma sono spesso a chiedermi che cosa avrebbe scritto Pasolini su questo tempo di costumi in turbinoso cambiamento; se ancora difenderebbe la pulizia dei volti dei giovani del popolo contro l’omologazione –borghese- dei capelli lunghi; se dietro quella difesa, apparentemente fuori tempo e senza speranze, c’era un contraddittorio spirito conservatore (speculare a Mishima che scelse la morte come estrema denuncia contro la modernità corruttrice) ovvero se l’acuto intellettuale friulano, in verità, aveva percepito la grande contraddizione della modernità, cioè il conflitto fra identità individuale o di classe e conformismo di massa. Di certo, Pasolini si misurò con una “tensione” che stava dentro i confini di una comune identità nazionale, mentre oggi il salto della contemporaneità sta in una contraddizione ancora più stridente, quella fra identità di popoli distanti, fra culture diverse che si scontrano e contaminano con diffidenza; anche perché l’incontro fra queste storie e pezzi di popolo avviene in modo spesso violento (come sta avvenendo in Europa), attraverso il mare o i confini di terra, su barconi o mezzi di fortuna, sotto l’oppressione dei nuovi mercanti di schiavi. Se è vero che oggi siamo di fronte ad uno scenario difficile da prevedere, è anche vero che della vecchia provocazione del poeta resta l’esigenza di una risposta che concili singolo e collettività, tendenza all’omologazione insita nella modernità (negativa o positiva che sia) e autonomia individuale, ma anche di popolo. Dato per scontato che il nostro è un tempo di confini comunque labili –al di là della fuga da guerre o fame-, perché i confini sono valicati quotidianamente dalla potenza delle comunicazioni digitali, la domanda è come cercare una sintesi fra le diverse culture e tradizioni, che sono costrette in una improvvisa (e drammatica) promiscuità, tanto più quando quelle culture provengono da storie non condivise e spesso sconosciute, soprattutto se costruite attorno ad un sentire religioso militante come nel caso dell’Islam. Quelle culture, quei costumi, quel sentire devono sovrapporsi e cercare di convivere in mondi paralleli, divisi da diaframmi sottili che possono rompersi e violentemente confliggere (come è avvenuto ed avverrà ancora) o dobbiamo immaginare un competizione positiva fino alla contaminazione, che, col tempo, finirà per produrre anche nuovi “popoli”(un nuovo ethos). Personalmente, ma è un approdo ancora instabile, sto maturando la convinzione che la vera risposta stia nella capacità di confrontarsi ma anche di contaminarsi, nella consapevolezza che comunque saranno i corpi e le anime dei singoli a cercarsi e fondersi, non riconoscendo o accettando a quel punto confini o limiti, perché al sentire, all’amore o alla passione comune (compassione) non puoi frapporre impedimenti che non siano la coercizione e la forza. Ma –qui sta il punto centrale del mio precario approdo- non ci sono convivenza e contaminazione possibili, se le tradizioni e storie che si incontrano non si riconoscono in un insieme di valori minimi ed non derogabili ( la libertà di coscienza, la libertà di culto, la parità di genere, la libertà di associazione, la separazione fra Stato e religione, ecc.). Da questo punto di vista, noi che abbiamo conosciuto l’illuminismo con il suo sforzo di cercare valori universali, e che su quello sforzo abbiamo faticosamente costruito le moderne ed imperfette democrazie, dobbiamo essere fermi, lì vanno costruiti i muri. Quei valori –immateriali ma solidi- sono i veri confini da presidiare senza alcun cedimento ed omologazione. Tuttavia, quando comunque la risposta sembra quadrare, torna Pasolini (e la sua modernità?) con una domanda ancora inevasa ovvero quanto sia poi davvero moderno “mutare” antropologicamente, costruendo cioè una cultura “altra” dalla nostra; quanto ancora abbia senso definirsi popolo, se accettiamo l’idea di “fondersi” con altri pezzi di culture e di popoli. Cioè come conciliare la necessità delle radici (stabilità ed ancoraggio) all’identità mutevole e mobile dei tempi, sapendo che –come scrive efficacemente Gigi Richetto- “…dobbiamo salvaguardare quella pluralità umana che è la paradossale pluralità di esseri unici…”. Forse, però, a pensarci bene, quella domanda è la domanda di sempre, da quando Adamo ed Eva furono allontanati dal paradiso. L’umanità è allo stesso tempo radici e sradicamento, stabilità e movimento, diffidenza e compassione. Come i capelli, a volte li tagliamo, a volte torniamo capelloni. Mutiamo.