La ricorrente tentazione di dare il voto al popolo che vota
Domenica si è votato, in Italia, per le amministrative. Due giorni fa, in Gran Bretagna, per la permanenza o meno nell’Unione Europea. In tutti e due i casi, ho letto commenti -anche assai autorevoli- che hanno in comune un giudizio molto critico sugli elettori, definiti con aggettivi che vanno dall’egoismo, all’analfabetismo, fino al populismo. Per inciso, una buona parte di questi commentatori, anche non di professione, in passato hanno tuonato contro una certa albagia, verso il popolo, della sinistra cosiddetta radical chic, assumendo oggi, però, la stessa puzzetta sotto il naso. Intendiamoci, la critica all’elettore che “non ha capito” non è una novità. In democrazia la tentazione di addebitare la sconfitta al popolo ingrato o incapace di intendere è un classico, una via di fuga piuttosto battuta. La novità di questi tempi, però, è una certa incontenibile astiosità degli sconfitti e dei loro sostenitori, che tendono ad etichettare il voto dentro categorie direi quanto meno ingenerose ed autoconsolatorie. Insomma, assistiamo alla politica che valuta il popolo e non viceversa. Ma la democrazia -regime di certo imperfetto- ha in sé il “limite” di far votare e di far esprimere tutti. Il gioco funziona così. Quando si è scelta la via alternativa dei cari leader, dei padri della patria, degli amorevoli conduttori si sono prodotte feroci dittature e guerre sanguinose. So già che qualcuno mi risponderebbe pronto – lo scrittore Roberto Saviano, e non solo, lo ha già fatto in queste ore- che anche Hitler è arrivato al potere dopo essere passato dal voto popolare. A parte la grossolanità di quell’analisi, sto all’argomento, aggiungendo che, con Hannah Arendt, abbiamo imparato quanto il male possa essere una “banale” qualità popolare; ma, studiando la storia o leggendo Hans Fallada, abbiamo altresì imparato che gli Hitler (i Mussolini o anche gli Stalin) sono arrivati dopo anni di frustrazione popolare, di disagio, di sofferenza colpevolmente trascurate; abbiamo appreso che la paura può portare alle terribili scorciatoie delle democrazie prima sospese poi soppresse. Ed è naturale che, di fronte all’incertezza ed allo spaesamento, i più impauriti, e anche -se vogliamo- i più “egoisti” nel difendere i propri “privilegi”, sono quelli che ce li hanno o pensano di averceli, pochi o tanti che siano. Le dittature, come tutte le dittature, sono però il frutto del fallimento della politica che ha portato quei popoli a cercare il “salvatore”, l’illuminato, a cui affidare le sorti della nazione, una cura alle loro angosce. Quindi l’argomento da cui siamo partiti, cioè che il voto del popolo non è sempre necessariamente giusto, ha un senso soltanto se aggiungiamo che gli esiti infelici della democrazia, il voto che non ci piace, il voto di chi non ha capito, quando conquista la maggioranza, è responsabilità sempre di chi ha scelto di essere classe dirigente di quel popolo. Ammesso, quindi, che abbia un fondamento definire “populista” il voto della Gran Bretagna sull’ uscita dall’Unione Europea – gli “ismi” si legano a patologie minoritarie, ma quando siamo al 52% dei voti starei attento a definizioni così spregiative-, ammesso comunque ciò, quel voto è il sintomo, non è la causa della malattia. La causa vera è una classe dirigente (in senso lato) che non è riuscita ad andare oltre l’euro e il mercato (peraltro neanche così libero come si racconta, anzi); che non ha saputo creare una comunità politica coesa; che ha prodotto una politica tanto incapace di assumere decisioni rilevanti quanto capace di cervellotiche vessazioni burocratiche quotidiane. Per tanti artigiani, operatori, cittadini, l’Europa è stata ed è una pletora di norme che si preoccupano di come confezionare i pomodori sott’olio, ma non riesce ad accogliere qualche migliaio di immigrati. Se, da una classe dirigente dimostratasi ad oggi così clamorosamente inadeguata, non viene colta l’occasione del voto popolare (o populista, se così vi piace di più) del Regno Unito per modificare radicalmente l’Unione europea, allora davvero sarà la fine di uno straordinario progetto di comunità sovranazionale e l’Europa tornerà ad essere semplicemente una realtà geografica. La scorsa settimana scrivevo provocatoriamente che, in caso di vittoria della “brexit”, secondo alcuni osservatori sul Tamigi sarebbero piovute rane. La sensazione è che se, a Bruxelles, chi conta e decide non cambia passo e attori, le rane pioveranno anche lì, e più copiose.