22 Novembre 2024
Art

Vento di Atena e di Apollo

Il tempio di Apollo Delion a Paros, vicino a Parikia, si trovava su un colle ventoso di quel vento dispotico che ho provato soltanto in Grecia. Al posto del tempio adesso ci sono poche rocce, come ha detto la signora da cui abbiamo alloggiato una notte, per abbassare le nostre aspettative.

Camminando all’ora del tramonto per lo stradello deserto che conduce a quei resti il vento si avverte appena, è un alito gentile, e infine, salito l’ultimo erto tratto, pervade d’improvviso tutta l’aria e lo spazio, mettendo il visitatore nella condizione di sentirsi un vincitore, oppure in una totale vacillante instabilità. Si deve rimanere saldi dinanzi al vento. Un colpo d’aria troppo violento, e si potrebbe perdere l’equilibrio, cadere dalla rupe.

Eppure è quello il soffio che spirando centinaia di anni fa ha reso possibile l’ideazione e la modellazione delle morbide pieghe di seta marmorea che avvolgono il corpo sensuale della Nike di Samotracia o delle imperturbabili cariatidi dell’Eretteo ateniese. È quello il vento che ha nutrito vivide fantasie capaci di creare miti tramandati oralmente per secoli su divinità, genealogie, guerre, su tutte le spiegazioni dei mali del mondo, narrazioni finalmente fissate su carta quasi tremila anni fa da uno o più artisti, e poi su pietra, scolpite in incredibili bassorilievi sui templi. La statua che svettava al centro del Partenone, opera di Fidia, era un’Atena dea della saggezza e della guerra crisoelefantina – ovvero d’oro e avorio; ma perché non recuperare vocaboli musicali come questo? La nostra lingua perde  pezzi in favore di una semplificazione formale, per raggiungere il cosiddetto grande pubblico. Ma suppongo sia da sempre avvenuto così. Questione, tutto sommato, di scelte.

La preziosissima Atena Parthenos era dunque alta tredici metri. Si deve immaginare l’effetto che doveva produrre una gigantessa tanto maestosa e imponente, la protettrice della città, a svettare al centro di un tempio strutturato su colonne a tal punto ciclopiche che molte di loro hanno resistito ad assalti, bombardamenti, saccheggi, radicali cambi di destinazione d’uso della struttura – da chiesa cristiana a moschea ottomana –, rimanendo comunque per buona parte in piedi dopo 2.500 anni dalla costruzione. Solo 9 anni per realizzare il Partenone. Un’inezia rispetto a una linea metropolitana italiana…

L’area su cui svettano i templi dedicata alla divinità è sulla sommità di un colle ovviamente ventoso, l’Acropoli, la parte più alta della città. Già, perché il termine ἀκρόπολις, ovvero ἄκρος «estremo, alto» e πόλις «città»1, non è forse, nella sua apparente semplicità, un sostantivo quasi emozionante? Non è entusiasmante frugare nelle parole, scomporle, svelarne le origini? Ho ripescato alcuni termini accantonati per decenni, con tanto di storie affascinanti dimenticate che sono saltate fuori come dal tenebroso vaso di Pandora. A questo giro non erano i mali del mondo, ma il mio passato che riacquistava un senso.

Ci si appropria, a volte senza consapevolezza, di passioni per riflesso condizionato. Ma quando si scelgono, allora sono amori che non avranno mai fine, che non verranno abbandonati, che alimenteranno il panorama di tutti gli altri amori con la loro forza. E se Omero, o chi per lui, ha narrato le gesta di decine di narratori, ha cucito una trama logica attorno a miti che dovevano dare un senso all’accanirsi delle intemperie, delle maree, dei vulcani, dei terremoti, della ferocia delle belve, delle malattie, dell’ira dell’uomo e di tutto il visibile e l’invisibile, altri scrivevano, negli affascinanti caratteri ai quali siamo debitori, le basi di una “rudimentale” filosofia per spiegare i moti umani, le attrazioni, le repulsioni, le reazioni, il concetto dell’essere uomo in relazione al creato. Esiste qualcosa di più importante? Esiste qualcosa di più profondo che non sia domandarsi il perché dello stare su questa terra? Esiste altro di più significativo oltre al presupporre l’esistenza dell’anima? Non saprei.

Mi muovo tra riccioli in marmo d’una perfezione e d’una purezza sorprendente, osservo sorrisi arcaici e occhi a fessura che un tempo furono dipinti, rivivo la passione di chi mi ha aiutato ad amare più profondamente quelle meraviglie che già amavo. Certo che la bellezza salverà il mondo. Certo che la capacità e l’inventiva sono le armi contro le brutture, contro la mediocrità e la superficialità, contro l’approssimazione e la durezza delle avversità che, inevitabilmente, a cadenze, accadono.

Quella straordinaria culla di ingegno, bellezza, lingua, arti e pensiero deve proprio avere avuto un vento speciale a favore. Lo posso sentire.

Ed ecco che si arriva laddove l’indicazione segnala il tempio di Delion in onore di Apollo a Paros. È vero. Sono poche enormi rocce che indicano il perimetro di vari edifici che un tempo furono. Volgendo lo sguardo al mare si scorgono isole una dietro l’altra tuffate nel blu, e poi monti sulla terra attorno a Parikia, e si odono solo colpi di martello che provengono dal rumoroso fantasma del tempio seduto su una recinzione, che alle otto di sera sta sistemando un pilone. Il vento incessante percuote le orecchie.

I luoghi di culto sono sempre speciali. Non sono mai solo rocce quelle che si vedono oggi, come non è mai stata una scelta casuale il luogo in cui erigere un tempio, perché si ascoltava la terra prima di costruire, i suoi smottamenti, i suoi sussulti, si consultavano gli oracoli, si sapevano riconoscere le increspature del mare e del cielo. Un’area sacra in cui venivano portate decine, centinaia, o migliaia di blocchi di marmo, proprio dall’isola di Paros, era un luogo prescelto. Vi soffiava il vento. Era il colle più alto, il più vicino al dio. La congiunzione tra i due mondi.

E sono certa che ogni visitatore giunto a quella sommità, davanti a quella vista, percosso dal sibilo che fa vacillare ed ebbro solo d’aria, magari per un solo attimo quei due universi li riesca a sentire congiunti.