Ebbene, il popolo ha anche la “pancia”. E quindi?
Nell’ultimo mio intervento, su “Italic”, ho evidenziato le ragioni di “principio” per le quali non mi convince la riforma costituzionale Renzi-Boschi. Riservandomi di intervenire, prossimamente, sul merito con più puntualità, mi sono soffermato invece sull’esigenza che -tanto più in epoca di poteri globali- una tale riforma non possa ignorare l’esigenza di restituire più forza al popolo. In Italia, dove ormai c’è una vera e propria rottura fra elettori ed eletti (un elettore su due o non vota o vota contro), recuperare il popolo alla partecipazione attiva delle scelte avrebbe dovuto essere il “cuore” della riforma costituzionale, non certo limitandosi ad un modesto ritocco del referendum. Sull’opportunità di restituire sovranità decisionale ai cittadini, mi sono arrivate alcune critiche -con la quali volentieri mi misuro- che hanno evidenziato il rischio delle decisioni prese con la pancia. In sostanza, la ricorrente albagia di certi osservatori o analisti ripropone l’argomento che il popolo che decide rischia di decidere senza ragione, solo per istinto; il populismo insomma. Intanto, come Hobbes, non penso che gli Stati moderni siano nati per voglia di comunità, per stato di grazia, ma per stato di necessità e di pancia. La politica è nata proprio per la migliore sintesi possibile fra pancia e ragione, tuttavia la migliore forma di governo che la politica si è inventata è la democrazia, cioè il governo del popolo. A tal proposito, sgombriamo il campo dall’equivoco della democrazia rappresentativa come luogo di decantazione degli umori popolari; momento di stacco fra popolo e governo. La democrazia rappresentativa, come ha scritto Nadia Urbinati, è un ossimoro, perché la democrazia è governo del popolo, né più, nè meno. L’eccezione è la delega agli eletti (per comodità userò il termine “politica” in quel limitato senso), non l’esercizio diretto delle scelte. La democrazia rappresentativa, in fondo, nasce semplicemente per ragioni pratiche (come potevi convocare l’intera popolazione in una piazza?); ma oggi ci sono strumenti –e anche competenza diffuse- che consentono di far decidere direttamente il popolo in tempi rapidi, anche standosene a casa (la democrazia digitale), ampliando il senso stesso di quella che intendiamo per “politica”. Insomma, la democrazia non può prescindere dal popolo. Come ebbe a ricordare Gramsci il vero leader (lui si riferiva alla leadership del partito) è superiore alla massa, senza sentirsi superiore; cioè si rapporta con la gente, con il sentire popolare, coi bisogni ed i disagi, assumendosi l’onere poi di formulare proposte e di scegliere, ma senza allontanarsi. Quando la politica ha assunto su di sé in modo esclusivo l’onere delle decisioni, per paternalismo o presunzione, si sono avute le dittature, dei duce, delle guide che, nel caso del nazifascismo, hanno trovato nel popolo, all’inizio, una legittimazione, salvo poi disconnettersi in nome di un progetto che non contemplava il popolo come protagonista ma come comparsa e poi vittima. Di contro, il paternalismo elitario e militante ha prodotto le “democrazie” senza popolo del comunismo, le dittature delle oligarchie “illuminate”. Oggi l’impostazione pedagogica si trasforma nelle leadership delle “narrazioni”, del popolo spettatore o militante di un fan-club. L’alternativa allora? L’alternativa è la rappresentanza eletta (ovvero il delegato) che restituisce al popolo la sua sovranità (ricontratta la delega) e, quindi, quando necessario, sfida il popolo, assumendosi la responsabilità anche di uscirne sconfitta. Lo sfida e non lo evita. Contrariamente e molti osservatori, ben più autorevoli di me, ho difeso la scelta del primo ministro inglese di “sfidare” i suoi elettori sull’Europa, proprio perchè la politica ha fatto sintesi, ha definito un progetto, però, avvertendo un forte dissenso (di pancia?), ha voluto che il popolo si esprimesse (e chi altri in democrazia, se non il popolo?). L’idea che i cittadini delegano e poi aspettano cinque anni oggi non mi pare che funzioni più; di certo non in Italia. Allora la politica o meglio la “delega” agli eletti? La politica ha ancora il grande straordinario ruolo di leggere la realtà e proporre soluzioni. Il problema, oggi, infatti non è il popolo che ragiona con la pancia, ma la politica che non ragiona più ovvero che non riesce ad indicare prospettive nuove, scelte originali, nuovo cibo per la pancia. D’altra parte, è vero che la gente deve essere messa in condizione di decidere con ragione e questa dovrebbe essere una priorità di un governo democratico. Non la narrazione, ma la formazione, la scuola, la cultura e l’informazione libera (non certo la Rai lottizzata ed i giornali dei soci amici). Quanto al rischio che il popolo possa mettere in discussione principi ritenuti assoluti, voglio ricordare che democrazie moderne nascono dopo le terribili dittature del diciannovesimo secolo, ma anche dopo la lezione del terrore della rivoluzione francese, stabilendo una griglia di valori e principi invalicabili, che -però- sono acquisizioni umane e non certo frutto di chissà quale illuminazione sovraumana. Nelle cosiddette democrazie liberaldemocratiche quei valori sono acquisiti come immodificabili, almeno di vere e proprie rotture costituzionali. E sono immodificabili anche nella nostra Costituzione, quindi non vedo rischi che la pancia del popolo smantelli i valori di convivenza che caratterizzano la nostra democrazia. Quel rischio mi pare l’argomento, la scorciatoia, di chi non vuol guardare in faccia i problemi della gente, bollandoli con il sostantivo populismo, così da archiviarli e autolegittimare la propria “superiorità” morale. Tenendosi ben stretta la “delega”.