Prospettive
Ammetto che mi è mancata.
Avevo paura della nostalgia che avrei avuto della mia Firenze vivendo all’estero per un anno. E sì, l’ho molto pensata.
Prima di partire per gli Stati Uniti andavo a lavoro percorrendo in macchina i viali, quelli che congiungono San Niccolò con l’Oltrarno passando dal piazzale Michelangelo da cui si acchiappa tutta la città, dall’alto. Ammiravo quel percorso costellato da cespugli di viburno, rami leggeri con minuscoli fiori bianchi, protesi a oscillare al vento in un malinconico saluto. E mentre mi ipnotizzavo chiedendomi se mi sarei ricordata ogni dettaglio di quella bellezza una volta fuori dalla mia vista, ecco che tornavo a meravigliarmi e commuovermi quando svoltavo una curva e mi si parava davanti, sempre all’improvviso, la cupola del Brunelleschi, geniale incanto architettonico. Pensavo ogni volta la stessa cosa: che prodigio sia l’essere umano nella sua capacità creativa.
Quella copertura dalla peculiare ed irripetibile forma non è forse il baricentro culturale ed emotivo dei fiorentini, il simbolo, il cuore, il catalizzatore dello sguardo scendendo da un aereo, l’oggetto cercato osservando l’abitato quando si fa una girata in collina? Molti si figurano la cupola nel proprio immaginario come l’elemento rappresentativo della città: il senso dell’orientamento e dell’appartenenza.
Quella struttura rivestita di tegole assisa su un trono di marmi, eterea e cadenzata nel suo equilibrio di proporzioni geometriche, la vedo solcare i mari, gigantesca nave con otto vele rosse innestate su uno scafo lucente dalla continuità interrotta da immensi oblò scolpiti.
Santa Maria del Fiore naviga da quasi seicento anni nelle acque delle alterne vicende di una Firenze che ancora beneficia di quei lontanissimi fasti. Innegabile e ripetitivo ricordarsi che ancora oggi godiamo un ricco presente fondato quasi solo su quelle meravigliose creazioni.
Mi arrampico su per scale anguste e ripide insieme a decine di turisti ansimanti per raggiungere la sommità del Duomo in un mattino velato; vedo le travi lignee, le posso toccare, ed immagino quel percorso immerso nel buio soltanto fino a poco più di cento anni fa. Nella penombra si intravedono porte chiuse; manca l’aria che passa a tratti con poca luce da fessure, fendenti inferti con chirurgica maestria, tanto esteticamente non rilevanti dall’esterno quantomai vitali all’interno.
Questa è la struttura originaria, l’antro oscuro: adesso sono dentro alla balena di Pinocchio, in mezzo a gigantesche costole di legno.
Ne usciremo mai? Tutti stiamo pensando la stessa cosa. Il passo s’affretta, per quanto stanchi, per i 460 e passa scalini. Le pareti stranamente concave dello stomaco del cetaceo sono state rivestite di muratura per rendere il passaggio percorribile ad orde di curiosi come me, con tanto di corrimano in ferro e gelidi neon. Com’era secoli fa quel passaggio?
S’arriva in cima dove si trova la lanterna, si esce allo scoperto, e il cuore fa un tuffo. C’è un vento caldo di scirocco oggi, il sole è pallido ma l’aria è tersa che quasi non si tengono gli occhi aperti. La balaustra del ballatoio non è molto alta e temo ad avvicinarmici; penso che sul marmo liscio si potrebbe scivolare. E con gran facilità.
Prendo coraggio e mi faccio avanti per godere lo spettacolo. Osservo i meravigliosi spicchi-vele da una nuova prospettiva. Adesso sono nel fulcro, sulla vetta, e l’occhio abbraccia tutto ciò che m’appartiene nel senso della mia appartenenza territoriale a questo luogo, che dovrebbe essere di tutti coloro che qui si sentono a casa.
Ciò non cambierebbe se vivessi altrove: nessuno ci può sradicare dal luogo di cui ci sentiamo cittadini.
Saluto il sontuoso elegantissimo campanile di Giotto che dialoga da sempre con il Duomo, e a seguire il Battistero di San Giovanni dalle stupefacenti porte.
Racchiudo con uno sguardo le torri, i palazzi, i mille conventi e i chiostri, le chiese, fino ai lungarni e ai parchi che si allargano con propaggini verdi sulle colline di fronte a me: e sì, è un privilegio avere una memoria storica, e potersela godere.
E ancora sì, mi è mancata la mia bella. Calvino aveva ragione chiedendosi se si possa scrivere di un tema solo a partire dalla sua assenza, asserendo che per narrare un luogo questo debba prima diventare un paesaggio interiore.
Scendo. Faccio due passi.
Da piazza Santissima Annunziata mi giro, e osservo di nuovo, ora da basso, il Duomo. E l’unico pensiero è: che fortuna avere una nave secolare a vegliare su di me.