15 Novembre 2024
Italic

A proposito del vivere, del (consapevole) morire e degli scienziati che si credono Dio.

In questa settimana, sono accaduti due fatti che mi hanno profondamente colpito, perché riguardano il mistero della vita e della morte. Qualche giorno fa, un esperimento scientifico in Inghilterra si è concluso con l’apertura di uno scenario per certi versi sconvolgente: “…E’ ipotizzabile una maternità senza mamma. Si possono usare spermatozoi e semplici cellule della pelle, non servono gameti femminili…”. Commentando – positivamente- quell’evento, il grande scienziato italiano, Umberto Veronesi, ha ricordato (compiaciuto) che il padre della fecondazione in vitro,  Robert Edwards, ebbe ad affermare: “…volevo scoprire chi fosse davvero al comando se dio stesso o gli scienziati, e ho dimostrato che eravamo noi al comando…”. Per quanto mi trovi spesso d’accordo con Veronesi, il suo entusiasmo per quella “scoperta” mi lascia interdetto e stordito, per almeno un paio di ragioni. Perché quel “produrre” figli anche senza il patrimonio genetico di una donna, manterrebbe comunque alla donna -in quanto genere- il ruolo di mera incubatrice e  perché mi pare che si stia varcando un limite che può aprire a scenari inquietanti. Un’altra ragione dei miei dubbi sta in quell’idea che gli scienziati abbiano sconfitto Dio. Non sono credente e, pertanto, non penso che la mia vita sia il dono di una divinità alla quale riconoscere la proprietà della mia esistenza;  ma non voglio neanche immaginare un mondo dove gli scienziati sostituiscono Dio. E qui arrivo al secondo episodio che mi ha colpito. In Belgio, per la prima volta, è stata praticata l’eutanasia su  un minore che soffriva di dolori insopportabili e senza possibilità di cure. L’argomento mette i brividi e deve essere maneggiato con grande attenzione e rispetto, anche se sono un sostenitore della “dolce morte”. Una splendida sentenza della nostra Corte di Cassazione (da noi spesso la magistratura viaggia miglia davanti la politica) chiarisce non tanto il diritto all’eutanasia (le parole sono sostanza), ma il diritto di ciascun individuo all’autodeterminazione terapeutica, non escludendo che possa arrivare fino alla morte. Come ha detto efficacemente Beppino Englaro: “…nessuno può decidere per noi, semmai con noi”. Qui sta l’incrocio con gli scienziati che si credono Dio. La vita è comunque un mistero. E’ un libro di cui non ci sono stati tramandati il prologo e l’epilogo. Su quelle zone d’ombre che avvolgono origine e fine del’esistenza, da sempre, l’uomo ha cercato spiegazioni. Dio in fondo è il tentativo di spiegazione più riuscito, perché si autodefinisce in un dogma che come tale non prevede altre spiegazioni. Tuttavia, all’inadeguatezza del dogma, non può rispondere neppure una scienza che- in fondo come la Chiesa-  pretendesse di decidere, da sola, la vita e la morte. Non ho scritto “da sola” a caso. Ho ripreso la su citata espressione di Beppino Englaro per arrivare alla conclusione –provvisoria- che, nel favorire la vita o nel mitigare la morte, la scienza ha un ruolo fondamentale; ma neanche la scienza può decidere  per noi ovvero  può trasformarsi in Dio.  In uno splendido intervento sui temi etici, il giurista Gustavo Zagrebelsky,  usò un’espressione che è un po’ la mia bussola per maneggiare quella materia: “…sulle questioni ultime, siamo sempre penultimi”. Significa che, quando entri in quelle zone d’ombra, viaggi a tentoni, non hai certezze o fari, devi muoverti con cautela e a tentoni, pronto a cambiare rotta, senza certezze preconfezionate. In sostanza ed in pratica, questo vuol dire che il legislatore (e nel nostro paese sarebbe il caso che il legislatore battesse un colpo, affrontando anche il tema del fine vita!) non deve frapporre limiti ideologici o addirittura religiosi, ma individuare regole generali,  rinviando le scelte concrete a procedure e modalità operative, attraverso le quali  l’individuo che si misura con la vita o con la morte (sua o di chi gli si è affidato)  non è lasciato solo, né con Dio, né con lo scienziato. La decisione se vivere o morire diventa, perciò, il punto di arrivo di un processo informato e supportato da competenze diverse, in una dialettica stringente che, poi, un soggetto terzo (in Belgio, per esempio, sull’eutanasia  esiste un vero e proprio Centro di controllo, con professionalità multidisciplinari, cioè non soltanto medico-scientifiche) sintetizza non tanto in una decisione, ma nella validazione di una scelta che, in ogni modo, deve -non può che- restare individuale, intima ovvero familiare; poichè non puoi essere che tu o chi ti ama a decidere del tuo dolore o anche della tua felicità. La felicità umanamente possibile, s’intende.