22 Novembre 2024
Italic

Ad Aleppo non si fa più il sapone, ma si muore di bombe e di sete.

Ho conosciuto il sapone di Aleppo qualche tempo fa grazie ad un amico erborista. Aspro, mal tagliato, di un verde indefinito, un odore forte ed intenso di alloro, olio di oliva, cenere, terra secca, sudore e mani antiche. Poi lo strofini sulla pelle e  tutta quella poltiglia poco accattivante si fa lieve come velluto, un profumo di pulito e vento sulla pelle. Oggi, la città di Aleppo è un cumulo di macerie;  lì arei russi, americani, turchi, siriani e chissà quali altri massacrano e distruggono, forse avendo anche smarrito il perché di quello scaricare bombe e colpire luoghi un tempo ricchi di magia e di storia. Le fabbriche di sapone non ci sono più. Pare che l’unica ancora in produzione sorga al confine tra Siria e Turchia;  ma è come produrre il Brunello di Montalcino a Roccaraso.

La Siria è ormai un grande campo di guerra dove il cosiddetto occidente consuma l’ennesima sconfitta di civiltà in nome della civiltà. Soprattutto quel fallimento trova origine nell’ennesimo errore di arroganza degli Stati Uniti. Che poi quella tragedia sia frutto anche degli errori di un capo di Governo, il Presidente americano Obama, insignito –senza peraltro alcun merito particolare, sulla fiducia insomma- del premio Nobel della pace, ha un sapore di grottesco, quasi di beffa.

Ma la Siria, terra straordinaria di incontri e di convivenze, non è la sola terra di martirio e sangue in quella parte di mondo, in un filo di terrore che, dalla penisola arabica si diffonde nel continente africano e viceversa. Ai bambini che muoiono di fame e sete ad Aleppo rispondono i pianti dei bambini dello Yemen, gli strazi delle giovani donne violentate in Nigeria, la guerra infinita in Etiopia, le stragi quotidiane nel mai pacificato Iraq, la Libia dei tanti capi, delle tante guerriglie e di nessuna fine. In questo continente straziato è cresciuta e si sviluppa la follia dell’Isis e dei nuovi terrori planetari. La paura è diventata la condizione di vita quotidiana di interi popoli, che, quindi, fuggono e cercano una vita migliore, sfidando la morte ed il dolore. Un intero continente sta smottando come uno iceberg si sfalda ai margini dell’Estate.

A pensarci bene, tutta l’incertezza, la morte, il dolore, il sangue, la follia di questi anni sembra concentrarsi, ora più che mai, proprio in quel pezzo di pianeta, fra penisola arabica ed Africa, che davvero appare come la “linea d’ombra” -anche nel senso immaginato da Conrad- del nostro agire di dominatori non rassegnati e voraci. In quelle terre è come se il male fatto in anni di depredazioni, “conversioni” religiose e scorrerie si fosse aggrumato, addensato come cera, che oggi si scioglie e sommerge tutto, senza più riuscire a leggere contorni, responsabilità, origini, conclusioni, vie d’uscita. In quei luoghi straordinari sembra che il nostro passato, in realtà non sia mai passato, quasi imprigionato in un sortilegio di qualche sciamano di deserto o foresta, per tornare come questo presente appiccicoso, che non ti lascia e ti tormenta come mosche sui resti di una carcassa.

Allora?. Allora l’Occidente che si è assunto delle responsabilità, spesso sbagliando, ha oggi la responsabilità di accogliere e lenire tutto quel dolore, ma soprattutto di contribuire a strappare le radici dove quel dolore si produce. L’enfasi dell’accoglienza fine a se stessa non è la via giusta ovvero non è la soluzione sufficiente. Non possiamo immaginare nazioni e terre svuotate di anime e corpi. Non possiamo consentire che dalla Siria fino alla Libia, scendendo giù nei deserti africani, arrivando al Congo e oltre, restino padroni solo tagliagole pseudoreligiosi, tiranni più o meno presentabili ed affaristi che estraggono diamanti, petrolio e ricchezze naturali che sembrano non avere fine.