19 Dicembre 2024
Italic

Il Presidente Obama ed i bambini dello Yemen

Ian McEwan ha scritto che coloro che la menano con la narrazione, di solito, hanno una visione ubriaca della realtà. Nell’epoca della politica-immagine è evidente che il leader politico è promotore di una narrazione, ma ne è anche protagonista. Per tirare il bilancio, perciò, di un’esperienza politica come quella del Presidente degli Usa, Barak Obama – obiettivo di questo mio intervento-, dobbiamo allora uscire dalla narrazione, che sia su pagine patinate o a tinte forti. Se usciamo dal racconto ed entriamo nei fatti e nella storia di quella presidenza, vediamo che si accavallano contraddizioni profonde, che vanno oltre la retorica; e che, probabilmente, sono anche connaturate al ruolo di capo di una superpotenza. Il giudizio, pertanto non può che derivare dal “peso” di quelle contraddizioni. Obama è stato certo il Presidente che ha ottenuto (sulla fiducia?) il Nobel per la Pace, ma è anche il Presidente che è venuto via dall’Irak, senza costruire una rete di sicurezza, un percorso che garantisse quel paese, tracciando invece la strada (o quanto meno asfaltandola) all’ affermarsi dell’Isis in quella martoriata (in buona parte per responsabilità statunitensi) regione. Obama ha aperto il fronte anti-Assad, in Siria, accusando quel regime dell’uso di gas contro gli oppositori (le denunce sull’uso di armi chimiche o di gas tossici sono un classico della politica estera americana recente), minacciando di intervenire, ma ha tentennato, aprendo un varco all’aggressività della Russia di Putin, che è tornata protagonista in un’area dov’era ai margini da qualche lustro. Il Presidente americano ha chiuso l’accordo storico sul controllo del nucleare in Iran, però, per tranquillizzare i potenti alleati sunniti dell’area (contrari ad ogni intesa con gli odiati sciiti iraniani), ha approvato l’aggressione dell’Arabia Saudita allo Yemen con il solito pretesto della lotta ad una frangia di “terroristi” sciiti insediati a nord del paese. In un bello scritto di qualche giorno fa, Dacia Maraini ha posto l’attenzione sui bambini yemeniti che muoiono di bombe, di fame e di sete nell’indifferenza dell’Occidente. Quella guerra ad uno dei paesi più poveri al mondo ha comportato per i produttori statunitensi una commessa di armi pari a circa sessanta miliardi di dollari, incassando, il Governo americano (cito fonti giornalistiche non smentite), circa il sette per cento quale compenso per la intermediazione nella vendita di quell’immenso quantitativo di materiale bellico. Obama è anche fra gli attori del disordine e della guerra (civile?) in Libia, dove ormai si è perso il bandolo di un ragionamento che faccia cessare la carneficina. Il 3 ottobre 2015 un bombardamento di aerei del Presidente americano-Nobel per la pace, a Kunduz, in Afghanistan, ha distrutto un ospedale di “Medici senza Frontiere”, uccidendo quarantadue persone fra pazienti e personale medico (e non si è trattato di un evento eccezionale). Tutto quel turbinare di armi, interessi e contraddizioni genera anche il combustibile che ha alimentato e sta alimentando il grande flusso migratorio che approda in buona sulle coste italiane. E mi fermo qui, perchè merita soffermarsi anche sulla politica interna. Indubbiamente il Presidente Obama ha affrontato con efficacia la grave crisi socio-economica del paese, ma il paese resta solcato da disuguaglianze profonde, tant’è che la stagione del giovane leader afroamericano è anche la stagione dello stillicidio di cittadini neri uccisi dalla polizia. Nei prossimi giorni ricorreranno due anni dalla morte del dodicenne di colore, Tamir Rice, che si dondolava su un’altalena con in mano una pistola giocattolo, a Cleveland, in una fredda giornata di novembre. Una pattuglia di poliziotti di passaggio gli ha sparato due colpi, senza neppure scendere dall’auto; e gli agenti non sono stati neanche incriminati. L’elenco dei morti e dei poliziotti impuniti è lungo, troppo lungo per un Presidente di colore. Tant’è che lo scrittore Ta-Nehisi, in un libro spietato, punta il dito contro un razzismo che non è confinato a qualche settore “deviato” della polizia, ma è frutto di un razzismo istituzionale, che trova alimento in una cultura diffusa e non sconfitta, “…la verità è che la polizia rispecchia l’America”. Obama certo che non ne è responsabile diretto di quei crimini, ma è Presidente di quell’ America razzista e per tanta parte indifferente descritta da Ta-Nehisi. Da questo opinabile e sommario excursus dovremmo trarre la conclusione che Obama è stato un cattivo presidente? Assolutamente no. Obama è stato un buon presidente, decisamente migliore di chi lo ha preceduto, a partire dalla coppia padre e figlio Bush. Tuttavia non credo che ad Obama debba essere dedicato un “altare”, come fa certa sinistra italiana in eterna ricerca di un’icona da appendere la muro. Nel bel film “il Divo” di Paolo Sorrentino, c’è un dialogo incalzante fra Giulio Andreotti ed Eugenio Scalfari. Al giornalista che gli chiede conto di un lungo elenco di colpe ed accuse, il serafico allora Presidente del Consiglio risponde secco: “…diciamo che la situazione è più complessa”. Ecco, la complessità della situazione vale anche per esprimere un giudizio sul Presidente Obama. Luci ed ombre. Ombre dense in politica estera. Più luci che ombre. Però nessuna beatificazione. Meglio di no.