L’Esercito in città fra destra e sinistra. Migrazioni e contraddizioni.
Almeno in parte, l’inefficacia della politica nel nostro paese trova origine nella prigionia dei luoghi comuni e delle frasi fatte; salvo poi correre precipitosamente ai ripari, quando la realtà bussa alla porta, a quel punto anche ribaltando posizioni e scelte, spesso con la supponenza e la disinvoltura di chi ha sempre avuto ragione. Le politiche sull’immigrazione sono un esempio evidente di quella prigionia. Da destra, si risponde a quel complesso problema, con la semplificazione dei muri e dei richiami all’identità violata; da sinistra con l’enfasi sull’accoglienza e sul valore della multiculturalità. I primi evidenziano il nesso automatico ed ineluttabile fra delinquenza ed immigrazione, anche se le leggi che hanno approvato, un tempo al governo, di fatto rendono complicato rimpatriare anche chi delinque; i secondi negano del tutto quel nesso, rifugiandosi nell’ormai luogo comune della percezione errata da parte dei cittadini. Poi arrivano le testate della realtà e, a Milano, il Sindaco di centrosinistra, dopo episodi di violenza in zone a forte densità di immigrati, accoltellamenti fra bande di sudamericani e filippini, decide di chiedere l’intervento dell’Esercito proprio evidenziando il nesso (che c’è) fra una parte di delinquenza e fenomeno migratorio, così contraddicendo le recenti posizioni della sinistra meneghina, ma anche spiazzando la destra da sempre sostenitrice dell’Esercito in operazioni di ordine pubblico. La situazione è talmente contraddittoria che, a Milano, la differenziazione fra destra e sinistra ormai passa per il numero di militari da dispiegare in città; troppo pochi per gli uni, più che sufficienti per i secondi. D’altra parte, quando semplifichi un problema complesso finisci poi per semplificare e sovrapporre le soluzioni. I fenomeni migratori sono la realtà incancellabile di questo secolo. Una condizione destinata a durare anni. Non si possono affrontare quegli eventi, proponendo di fermarli con muri e barriere, mentre servono politiche; e le politiche prima di tutto hanno bisogno di ragionamento e conoscenza che, di per sé, è l’unico viatico contro i luoghi comuni. Fossi il Ministro degli Interni , per esempio, mi confronterei con chi quotidianamente affronta, sulle strade e nelle strade, il problema dei migranti: dal poliziotto o carabiniere fino all’operatore sociale, evitando di nascondersi dietro le statistiche rassicuranti. Così facendo, intanto, il governante “scoprirebbe” che c’è un’ oggettiva relazione fra immigrazione e certi fenomeni delinquenziali, considerando pure che i migranti, quasi sempre, vengono collocati in periferie a forte degrado, dove il convivere civile sta già collassando. Riconoscere quel nesso non significa assumere una politica di chiusura, tuttavia significa fare i conti con un oggettivo, possibile effetto negativo della presenza dei migranti, attivando di conseguenza adeguate soluzioni per prevenirlo, a partire da dove e come accoglierli. Se non depotenzi il rischio delle illegalità, diventa più difficile coinvolgere positivamente le popolazioni che devono accogliere. Le politiche migratorie, però, hanno bisogno di strategie, di risposte a domande impegnative. La migrazione non è solo un processo prodotto dalla fame e dalla disperazione, ma sta pienamente dentro la globalizzazione. Non puoi favorire la circolazione di merci e capitali, inchiodando invece le persone ai luoghi ed alle identità nazionali. Questa consapevolezza presuppone che una comunità si confronti sul senso dei propri confini ovvero sul valore delle frontiere e dei limiti territoriali. Così come è necessario ri-definire che cosa significano oggi espressioni come popolo e nazione. L’appartenenza “nazionale” è il prodotto dell’adesione ad una storia o è soprattutto l’adesione ad un insieme di regole? Ha ancora senso il legame fra territorio e nazionalità? Ha ancora un valore l’enfasi sulle patrie di fronte ad un mondo sempre più connesso? A queste domande, le risposte più efficaci non possono che provenire da una dimensione europea, altrimenti davvero l’Europa non ha più ragione di esistere (politicamente). Nel frattempo, tuttavia, servono politiche nazionali ben più incisive e coraggiose. L’accoglienza è necessaria, ma devi stabilire dei limiti di sostenibilità economica e sociale. Quanto e dove possiamo accogliere? A quali condizioni? Dove collocare chi non è possibile accogliere? Di queste esigenze, del resto, si è reso conto lo stesso Papa Francesco che, visitando la Svezia alla prese con un’accoglienza che sta diventando difficile, ha posto anche il tema delle compatibilità. Se accogli, infatti, devi anche garantire servizi e qualità. L’accoglienza diventa più difficile – e si torna al punto d’inizio- se non imponi l’osservanza delle leggi e degli usi, pur nelle doverose tutele delle minoranze. Diciamocelo –e mi rendo conto dei rischi di quest’affermazione!- se sei ospite hai un dovere aggiuntivo di rispetto delle regole e dei luoghi. Di contro, lo Stato, tanto più se è accogliente, deve essere rigoroso nel pretendere che la legalità sia mantenuta o ristabilita. Proprio su quel terreno credo che i nostri governanti si giochino gran parte della credibilità e del consenso. Fino ad oggi è stata posta l’enfasi sulla scelta –più che meritoria- di salvare vite, ma su quelle vite dopo hai delle responsabilità, assumendoti l’onere di garantire diritti ed imporre doveri. Su questo piano mi pare che l’azione dello Stato sia ancora largamente insufficiente. Per inciso, il Presidente americano, Barak Obama, nuova icona di almeno una parte della sinistra italiana, di certo della sinistra governativa, ha avviato politiche di regolarizzazione dei migranti irregolari, ma ne ha anche espulsi quasi tre milioni che avevano commesso reati. In Italia, le espulsioni, anche se di clandestini delinquenti conclamati, sono macchinose e si riducono a qualche centinaio ogni anno. Pertanto, se non ci saranno cambiamenti di approccio e di scelte, penso che il Governo rischi di saltare più su quel problema che sul Referendum costituzionale.