“L’azione distrugge l’utopia”
Il giorno tre gennaio scorso, sui giornali, sono apparse alcune notizie apparentemente scollegate fra loro, ma che personalmente ho trovato unite da un sottile filo rosso. Il Sole 24 Ore, con il suo competente inviato in Medioriente, ribadiva – come altri documentati giornalisti scrivono da tempo- che, per amor di verità, l’Isis ed il terrorismo islamico sono in tanta parte l’effetto di scelte sbagliate prima di tutto dell’Amministrazione americana di del Presidente BarakObama, che evidentemente non è riuscito ad attutire o attentuare, neanche un po’, le responsabilità dei suoi predecessori nel caos di quel delicato scacchiere mondiale. La colpa dell’instabilità fra penisola arabica ed Africa non è certo solo di Obama, ma costui è il Nobel per la pace, l’uomo che ha illuso con suggestioni e abbozzi di utopie planetarie. L’altra notizia la riportava, invece, la Stampa con il titolo esemplificativo: “Non difende più i diritti”, -tramonta Lady Birmania. Ci si riferisce ad un altro Nobel per la pace, Aung San Suu Kyi, accusata di tacere sulla pulizia etnica in corso in quel paese da parte dell’esercito nei confronti del minoranza etnica Rohingya. Proprio mentre scrivo questo pezzo, senza strappare grandi titoli sui giornali, si apprende la notizia di un bambino di quattro anni morto di stenti, mentre era in fuga con la sua famiglia dalle persecuzioni in terra birmana. Insomma, anche nel caso dell’eroina dei diritti umani, il potere conquistato sembra aver compromesso o di molto ridimensionato le aspettative, tant’è che contro di lei è stata inviata all’Onu una lettera sottoscritta da ventitrè leader mondiali, tra cui anche Nobel per la pace. La terza notizia di questo appena scorso tre gennaio del nuovo anno-reggetevi perchè sto curvando a velocità incontrollata con rischio di cappottamento- è che, in Italia, il Movimento Cinquestelle -ovvero il suo leader Grillo- è diventato garantista proprio quando (curiosa coincidenza?) stanno entrando nelle stanze del potere ed a Roma, la capitale, si sono ufficialmente insediati, da qualche mese, al governo del Comune, accumulando già non pochi problemi ed errori. Il filo rosso di quelle notizie, come alcuni lettori avranno capito, è una peculiarità ovvero una controindicazione tipica del potere, cioè la difficoltà di misurarsi con le compatibilità e le conseguenze delle proprie azioni. Peraltro, coloro che identificano se stessi come gli innovatori, gli alfieri di un dopo radicalmente migliore del prima, hanno sempre responsabilità maggiori di chi sceglie il basso profilo e saranno giustamente valutati con meno benevolenza o comprensione. E’ anche il caso del “renzismo” passato dagli effetti speciali della Leopolda ad un’azione di governo dagli esiti assai deludenti. Proprio la Stampa ricordava una citazione di Piero Gobetti , “l’azione distrugge l’utopia”, che ben sintetizza quanto complesso sia passare dal dire al fare. Quanto è difficile trasformare la speranza in soddisfazione; dando concretezza alle attese. Tant’è che Francesco Bacone ebbe a scrivere che “la speranza è buona come prima colazione, ma è pessima a cena”. Governare in fondo è un’attività noiosa, grigia, faticosa, lenta e sottoposta a resistenze direttamente proporzionali al cambiamento; “si fa campagna elettorale con la poesia, ma si governa con la prosa” (come ricordò Mario Cuomo, leader democratico americano). Le stesse “rivoluzioni”, quando non si sono misurate con le compatibilità, i limiti, le resistenze burocratiche hanno poi finito per costruire sistemi che sono implosi nella loro sconnessione dal mondo reale. Di recente basti vedere gli esiti inquietanti della cosiddetta rivoluzione chavista in Venezuela. Tutto queste non significa che non si possa cambiare e neppure che non si possano aggiornare, correggere ridimensionare le aspettative o i progetti, misurandosi con la realtà che, quando entri nelle stanze del potere, quasi sempre è più complicata di come te la immagini standone fuori. E’ nell’ordine naturale delle cose, vorrei dire. L’importante sarebbe che il potere riconoscesse le sue debolezze o le sue difficoltà. Lo scarto fra fallimento di un progetto di governo e la sua riuscita, ancorchè parziale, sta nel grado di verità che si racconta, oltre alla necessaria coerenza delle scelte. Purtroppo, in questi anni, in Italia come altrove, quasi mai chi governa riconosce le proprie (impreviste?) difficoltà , i compromessi necessari ovvero i fallimenti; mentre si preferisce cercare un qualche nemico su cui scaricare i propri limiti; ovvero si cerca la via di fuga del narrare un mondo che nella sostanza non c’è o non è proprio come si è raccontato (o romanzato?), illudendosi, nell’epoca dell’immagine, del web o delle stampanti tridimensionali, che forse sia possibile ri-stampare la realtà come la vorresti, convincendo poi il popolo a crederci. Però la realtà ha la testa dura. La puoi comprimere un po’, tuttavia alla fine strappa, viene fuori, facendosi vedere e sentire.