La morte giovane
Pochi giorni fa, un giovane sedicenne si è ucciso, gettandosi dal terrazzo di casa, quando si sono presentati alcuni finanzieri -su richiesta della madre disperata e “disarmata” di fronte ad un figlio a suo dire perso dietro la droga- per verificare se nascondesse niente meno che qualche grammo di hashish. Anche se sono un (tormentato) sostenitore della liberalizzazione (quindi oltre la legalizzazione) delle droghe leggere, mi limito ad usare quel drammatico evento come pretesto per ri-parlare della difficile condizione dell’essere giovani, tanto più in questo tempo. Nel commentare drammi di quella dimensione, infatti si rischia di cadere nella retorica dei giovani che si sballano, perchè non hanno prospettive, un futuro che li tenga desti e vigili. In fondo, però, questa è gran parte della verità. L’essere crisalide in trasformazione, da sempre, rende i giovani vulnerabili e fragili, adescabili. Oltre alle crisi esistenziali, che, “fisiologicamente”, accompagnano la giovinezza, oggi, però, dobbiamo fare i conti con l’aggressione del nichilismo, quello che Galimberti chiama l’ospite inquietante, morbo insidioso di una società che non riesce a restituite senso al vivere, che non sa fare intravedere ai propri figli una qualche “promessa”. Rispetto ai tempi passati, i giovani di oggi vivono in un presente che non sembra anticamera di un futuro; vivono anche nella potenzialità e nella prigionia del mondo virtuale. I sociologi ormai parlano di “nativi digitali”; giovani quotidianamente immersi in un mondo che, se non maneggiato con cura, allontana dalla fisicità e dal calore dei rapporti; ti crea un muro artificiale dentro cui, nella fragilità del tempo, ti senti protetto, ma sei invece vulnerabile. A questo artificiale mondo di byte ed impulsi elettronici fà da interfaccia il mondo delle droghe e dello sballo. Quei mondi sono frutto della stessa idea; cioè che si possa affrontare la propria difficoltà di vivere, attraverso una soluzione artificiale, che si chiami internet o chat o si chiami alcool o droga. Il “rifugio artificiale” diventa l’illusorio mezzo per affrontare un mondo concreto da cui ci si è allontanati, anche perchè non è interessante, non è costruito a misura di giovane, anzi ai giovani appare ostile, già consumato. Certe volte anche a me, che non sono giovane, pare di vivere in un mondo ormai ridotto ad un ammasso di residui, di oggetti e luoghi consumati; figuriamoci quanto questa sensazione possa lesionare il cuore e l’anima di chi, per età, vive il senso dell’inadeguatezza e della privazione. Di fronte a questa complessità di problemi, la risposta degli adulti appare spaurita ed inadeguata. La reazione più frequente è quella di chiedere nuove leggi e norme, divieti su divieti. Al disagio, la politica pare voler rispondere espandendo un fenomeno che a me inquieta, cioè lo Stato paternalista; lo Stato che educa, che entra nel privato e ti vuole insegnare a vivere. Questo approccio non mi piace; quando il potere si fà pedagogo arrivano i fondamentalisti. Un sociologo tedesco, in un recente inno alla difesa del privato, ha scritto: “quando cessa l’amore, suona sempre l’ora del diritto”. Verso questa nuova generazione, precaria e fragile, dobbiamo rafforzare il valore dell’amore, inteso come attenzione all’altro, come capacità di costruire le condizioni, perchè i giovani abbiano un futuro, siano protagonisti, siano sostenuti nel riconoscere e sviluppare le proprie capacità, a scuola, in famiglia, nella società. Una ricerca scientifica di qualche tempo fa, svolta a Minneapolis, ha documentato che i giovani abituati a mangiare con i genitori (amore e scambio, quindi), hanno meno problemi con depressione, alcool e migliore capacità espositiva. Per aiutare i nostri giovani, non c’è bisogno di troppe leggi, ma di buone prassi e buoni esempi; non divieti ma progetti; meno restrizioni e più opportunità. Ciò significa, per esempio, che lo Stato non può pretendere di legiferare sulla vita privata, contro le droghe leggere o contro i rave party, e poi guadagnare sul gioco d’azzardo, una delle vie attraverso cui si produce disperazione, dipendenza e dolore. “Amore” della politica verso i giovani, invece, significa dare loro spazi di protagonismo e di autoaffermazione. Naturalmente l’amore non può dissociarsi dalla responsabilità. Ne è l’altra faccia. Come, del resto, l’odio è una risposta all’indifferenza, l’altra faccia del nichilismo che, spesso, prevale e pervade un pezzo della nostra gioventù.