Antonia Guarnieri, Madre per caso, ETS Edizioni 2016, pag. 176, € 15,00
Mettendo al centro una famiglia borghese nei primi anni ’50, in Madre per caso Antonia Guarnieri fa un’analisi appassionata della sua vicenda personale, ricostruendo al tempo stesso gli aspetti e le contraddizioni di un momento storico, quello immediatamente successivo al secondo dopoguerra, in una città di provincia. Apre anche su orizzonti più vasti già precursori dello spirito dell’Europa Unita: nata a Timisoara, dove il padre Silvio Guarnieri dal 1936 era Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura e lettore presso l’Università, vive un anno a Bruxelles, poi nella casa paterna di Feltre, dove giunge ricca della sperimentata conoscenza delle diversità e delle lingue, il rumeno, l’ungherese, il francese.
La bambina che frequenta le elementari a Feltre nei primi anni ’50 è una creatura mite, di una sensibilità profonda, una spugna che assorbe tutto, e quindi modella il suo carattere sui messaggi che le arrivano, verbali e non verbali, belli e brutti, incapace di trovare da sola le risposte, isolandosi sempre di più e scegliendo il sogno. Ma per capirla è indispensabile conoscere i personaggi.
Silvio Guarnieri, di famiglia borghese, di padre dichiaratamente democristiano, si iscrisse nel 1945 al PCI. Scrittore, politicamente impegnato, aveva fuggito la censura fascista scegliendo la Romania, dove l’aveva raggiunto la moglie in tempo di guerra. Uomo di rigidi principi morali, intellettuale che niente concedeva all’errore, perché ognuno, secondo lui, deve fare la cose al massimo delle sue capacità e farle bene fin dalla prima volta. Pretende dalla figlia il massimo impegno intellettuale, condanna ogni altra sua inclinazione per le attività femminili, come cucire, lavorare ai ferri e all’uncinetto, che invece le insegna di nascosto la nonna. Del resto lui è’ incapace di qualsiasi attività pratica, perché, come dice la Maria Tedesca, la saggia serva della nonna paterna, sono i poveri che sanno fare tutto, i ricchi si fanno servire. Il padre è una figura rispettata e temuta da Ninetta, soprannominata Manine d’oro, un uomo di cui lei elemosinerebbe un sorriso, un abbraccio. Ma per lui baci ed abbracci sono smancerie. In contraddizione profonda lui stesso, così rigido e al medesimo tempo capace di impegnarsi per le classi sociali più deboli. Alla fine degli anni quaranta, quando torna a Feltre, lui è visto come il diavolo dai benpensanti, perché è un comunista che non frequenta la chiesa. Questo si ripercuote sulla figlia maggiore, vittima della violenza psicologica della maestra, evitata dalle compagne su ordine delle famiglie. A scuola viene catechizzata senza autorizzazione dei suoi, con la collaborazione di un prete che le insegna a mantenere il silenzio, a dire bugie, per diventare cristiana come tutti gli altri. E nella solitudine dello scantinato le spiega che cos’è il peccato, avvalendosi delle mani della bambina, inconsapevole, ai propri fini libidinosi.
Con il padre lei non poteva confidarsi perché non si doveva chiedere niente, il mondo dei grandi era nettamente separato da quello dei piccoli, come del resto in tutte le famiglie, a quei tempi. Ninetta si sentiva sempre più sola, divisa, a disagio. La durezza paterna si abbatte su di lei, fino a diventare crudeltà, quando il padre scopre che ha taciuto sull’ora di religione: poi il silenzio punitivo, l’ostracismo, l’emarginazione, il senso di colpa che devasta la piccola.
La madre a cui si fa riferimento nel titolo, di origini modeste, ha trovato nella cultura lo strumento di ascesa sociale. Cresciuta in un ambiente di rigida razionalità dove l’ultimo dei figli assorbiva sempre tutta l’attenzione materna, si isola presto tra i libri e sposa un giovane di buona famiglia, il Guarnieri appunto, che l’ha affascinata parlandole proprio di libri, un uomo “composto nella espressione dei sentimenti”. Lo sposa per procura in tempo di guerra quando lui è già in Romania e lo raggiunge. Nascono due bambine.
Come lei non ha conosciuto contatti fisici con sua madre, così lei li evita, quasi rifiutandosi di toccare le figlie. Tuttavia non le trascura, si dedica a loro con grande senso del dovere, ne cura la salute, l’educazione, le difende e le protegge. In questo modo si sente nel giusto, come madre. Ninetta la vorrebbe sentire più vicina, desidererebbe non essere considerata grande quando arriva la sorellina, perché ancora estremamente bisognosa di cure. La madre non sorride, non dà un bacio, non tiene in braccio le bambine; non va loro incontro festosa nemmeno se torna da un viaggio ma gli fa ciao con la mano. Ninetta le sta vicino, le punta addosso gli occhi indagatori in silenzio, ma non succede niente.
Dopo un anno di maggiore serenità in Belgio, il ritorno a Feltre con il marito e le bambine la costringe a condividere la casa di famiglia con la suocera e con la Maria Tedesca che di nascosto annusa tabacco, beve qualche bicchiere e tiene un gatto. Pensa che sia un esempio dannoso per le figlie. I problemi di convivenza si fanno sempre più gravi, lei è temuta per le regole imposte e le richieste: non tollera il gatto, la suocera e la Maria Tedesca. Forse il matrimonio stesso non corrisponde alle attese. Sorride solo quando in casa arrivano degli amici, allora le conversazioni si fanno animate, le regole ferree di galateo si sfilacciano un po’.
La nonna accoglie la nipote, la accarezza, le insegna l’italiano, le fa scoprire il presepe di nascosto, ma non osa di più, rispettosa della volontà del figlio. Presso di lei Ninetta trova rifugio e complicità. Tuttavia la bambina diventa suo malgrado adulta troppo in fretta, le esperienze negative lasciano segni che si rimargineranno a fatica. Ninetta è vittima. Impara lentamente qualche strumento di difesa per sopravvivere; il bagno e i rami di un ciliegio la accolgono nei momenti di sconforto. La sorella minore non le può essere di aiuto, lei ha un altro carattere, è capace di dire di no, di fare i capricci, su di lei la rigidezza dei genitori non lascia segni. Tuttavia Ninetta è incapace di odiare ed è felice quando la madre finalmente impara a fare una carezza. Anche se non a lei.
La Guarnieri è molto attenta alle persone, le osserva, le sa ascoltare, poi le racconta in modo coinvolgente. Sa entrare con delicatezza nella vita degli altri, quando c’è bisogno, ed il suo libro Cinque anni con Mario Tobino (2010) ne è già stata una bella testimonianza.