I populisti parlano di altro
Non ho certo la pretesa di tentare una definizione di che cosa sia davvero il populismo. Dal classico “Populism” fino a “Italia populista” di Marco Tarchi, fior di studiosi hanno approfondito quel fenomeno in modo scientifico ed esauriente. Luca Ricolfi ricorda che “di populismo si parla più o meno da un secolo e mezzo, da quando –siamo nel 1870- il termine narodnik (populista, da narod, popolo) cominciò ad essere usato per designare un complesso di idee movimenti che avevano il loro epicentro nella Russia zarista”. Però alle definizioni scientifiche ed esaustive, voglio aggiungere una mia piccola personale considerazione, peraltro credo neppure particolarmente brillante. Una qualità specifica (direi ontologica) del populismo dei nostri tempi , di governo come di opposizione, è il parlare di altro. In queste settimane, se ne sono avute alcune interessanti conferme. Per giorni, si è discusso della legittima difesa notturna e giornaliera, ma, ad oggi, un’intera Regione –l’Emilia Romagna- è in balia di un pluriomicida immigrato, espulso però mai cacciato, di origini peraltro non ancora chiarite, che non è stato ancora catturato, nonostante una poderosa caccia all’uomo, che è diventata una sorta di metafora dell’impotenza o comunque delle difficoltà dello Stato nel garantire la sicurezza dei cittadini. Nei giorni seguenti, si è poi parlato del ruolo ambiguo di alcune organizzazioni umanitarie (ONG) nei salvataggi in mare di profughi provenienti dalla Libia, cosicchè è passato sostanzialmente nel silenzio il fatto che, rispetto allo stesso periodo del 2016, gli sbarchi sulle nostre coste sono cresciute del cinquantuno per cento; mentre il tanto celebrato (dal Governo Renzi) accordo con l’Europa per smistare poche migliaia di migranti non ha prodotto sostanzialmente niente (pare ne siano stati accolti neanche un dieci per cento). Del resto, il leader mondiale dei populisti, Donald Trump, dopo aver dovuto rinviare a chissà quando la realizzazione del muro con il Messico e altre roboanti promesse elettorali , si è lanciato nella prova muscolare con il pazzarello dittatore – dalla sfumatura alta- che governa con il pugno di ferro la Corea del Nord. Insomma, anche negli Stati Uniti si è parlato e si parla di altro. Perché il populismo, per definizione, non può permettersi il lusso, ed il tempo, di approfondire la complessità dei problemi e di cercare soluzioni efficaci; perché lo schema di ragionamento dei populisti prevede la divisione del mondo e della società in due attori distinti (un polo positivo ed uno negativo). Da un parte il “popolo” buono, dall’altra parte le èlite cattive (che, di volta in volta, sono L’Europa, la Cina, gli immigrati, la globalizzazione, la finanza, la casta dei politici, e via dicendo). Il buono ed il cattivo. Lo stesso Berlusconi, nel momento del suo massimo splendore, usò spesso lo schema del bene contro il male, noi l’amore, loro l’odio. Non meno manicheo l’approccio del Matteo Renzi, quando era Presidente del Consiglio: noi l’ottimismo, il fare,il futuro; loro il pessimismo, la palude, il passato. Del noi contro loro il M5S ha fatto un vero e proprio programma di Governo, rifiutando sistematicamente ogni alleanza o condivisione, nel nome della purezza di chi rappresenta –cioè loro e solo loro- chi sta fuori dal palazzo (ma ci stanno saldamente dentro) ed il palazzo. Il punto di caduta di questo approccio, che certo è facile al consenso, affiora tuttavia al momento del governare. Dentro quelle stanze devi misurarti con le scelte che, raramente, si prestano a soluzioni nette, tanto più in una società complessa (complicata), dove gli interessi sono spesso trasversali; dove nessuno vuole rinunciare al poco o tanto benessere che ha raggiunto; non dimenticandoci che quello che il su citato Ricolfi chiama il “mondo di sotto”, cioè dei ceti sociali che vivono ai margini ed hanno più duramente pagato la crisi economica che stiamo attraversando, e quindi avrebbero davvero bisogno del cambiamento, sono un terzo del popolo; mentre gli altri due terzi tendenzialmente stanno meglio e difficilmente accettano stravolgimenti delle loro condizioni, anche se intaccate dalla crisi. Quindi, il populismo del parlare d’altro non sembra in grado di attrezzare le risposte per i problemi di un mondo interconnesso ed “irrimediabilmente” interdipendente. Un mondo che non puoi dividere semplicisticamente in due, che non regge lo schema “noi la soluzione, loro il problema”. Di questa difficoltà credo debbano farsi carico anche le tradizionali distinzioni fra destra e sinistra.
Insomma, come ebbe a ricordare il grande governatore democratico, Mario Cuomo, “la campagna elettorale è poesia, ma governare è prosa”.