Carlo Betocchi: l’uomo al centro della poesia
Ciò che occorre è un uomo,
non occorre la saggezza,
ciò che occorre è un uomo
in ispirito e verità;
non un paese, non le cose,
ciò che occorre è un uomo,
un passo sicuro, e tanta salda
la mano che porge che tutti
possono afferrarla, e camminare
liberi, e salvarsi.
È un curioso destino quello che colpisce spesso i poeti che parlano con grande franchezza, e non amano i programmi letterari, i salotti, i colpi di scena. Curioso ma ingiusto, ovviamente, quando si abbatte su autori come Carlo Betocchi, nato nel 1899, e scomparso nel 1986, del quale già non è più reperibile in libreria (ove non si tratti di un remainder) alcuna edizione delle sue varie raccolte (la prima delle quali merita sicuramente di essere ricordata: Realtà vince il sogno, 1932), e non v’è traccia nemmeno di Tutte le poesie uscita per Garzanti solo nel 1996 (di tanto in tanto vado a controllare, caso mai sia sopraggiunta una ristampa… ma niente). Se all’assenza dalle librerie sommiamo il conformismo dei manuali scolastici (ormai fossilizzati in percorsi stantii), riusciamo ad avere un’idea di quanto possa essere lacunosa nei giovani l’idea della poesia, e quindi astrusa la coscienza che essa sappia dire qualcosa di “saggio”.
Chiedere saggezza alla poesia forse è molto, perché nel leggere e rileggere la poesia sopra riportata di Betocchi mi pare di sentire qualcosa di assurdo, di folle. Credo che scrivere un’ipocrita lode alla nazione Serba, con la speranza di esarcerbare gli animi e accendere la miccia della guerra, sia più facile che domandarsi in solitudine, vis-à-vis con se stessi, di che cosa hanno bisogno gli uomini se vogliono vivere in un mondo migliore. In tal senso si mediti su Ciò che occorre è un uomo: inclusa da Betocchi in un libro edito nel 1984, che riunisce, senza grande ambizione, “poesie disperse, edite e inedite”, questa poesia scritta nel 1960, in piena guerra fredda, è più che mai attuale; e non perché invoca la fine della corsa agli armamenti (argomento sul quale gli intellettuali intervenivano spesso), ma perché tenta audacemente di rispondere a una domanda che si ripropone in ogni difficile frangente della storia umana, cioè sempre: forse che l’uomo non fa del male perché ha cessato di essere “uomo” nei confronti del prossimo, e ha messo al centro del suo mondo la macchina, il profitto, le cose, e altri falsi idoli? Per questo, «ciò che occorre è un uomo…».
Una poesia “impegnata”, sì. Come fu impegnato Betocchi, per tutta la vita, a scrivere poesie “vere”. La forza politica di questa poesia non sta nel lancio di profezie e invettive, che catturano l’attenzione del lettore, o nell’uso di semantemi riconducibili alle questioni di quegli anni; sta invece nella capacità di attingere alle radici profonde del nostro umanesimo, superando l’ambito storico-culturale in cui questo fu formulato, e facendone un valore esistenziale del nostro breve passaggio sulla terra. Cosa si può fare per migliorare la vita su questo pianeta? Quante ricette politiche e ipotesi ideologiche sono state varate inutilmente? Come se già intuisse il fallimento di questo orizzonte, Betocchi sostiene che quel che serve davvero è un «uomo». Qualcuno vi leggerà, conoscendo l’accorato senso religioso di Betocchi, l’attesa (o la nostalgia?) del Dio fatto uomo, ma non è necessario. Io propendo per una lettura più semplice (così com’era semplice il poeta): basterebbe che ciascuno di noi fosse uomo per l’altro, «in ispirito e verità», porgendogli la mano, ascoltandolo, senza nascondersi, perché qualcosa cominci a cambiare. A cambiare sul serio.