Nicola Berti, Un giorno che non c’era nessuno, Edizioni ETS, Pisa 2017, euro 10
È un immagine cinematografica che ci appartiene quella che viene in mente leggendo “Un giorno che non c’era nessuno” di Nicola Berti. Un uomo solo che cammina, prende il treno, guarda la vita come si guarda una sconosciuta, si aggira invisibile nella città, tra le persone e le cose, che appaiono indistinte, un uomo–ponte che aspetta la piena (“Sono un ponte di questa città e aspetto la piena”), attento alle sfumature impercettibili della malinconia nel faticoso viaggio dell’esistenza. Un uomo che recita una parte, eppure vive davvero l’angoscia del suo tempo. Un uomo ai margini, inattuale, con un malessere profondo (“Vivere questi pochi giorni,/buttati tra un’alba e un tramonto cercando di stringere odori che diano/un senso al pulsare del cuore”), che lo spinge comunque a cercare un senso, una ragione per cui valga la pena il viaggio.
Il linguaggio scarno, essenziale ma anche evocativo, delle poesie di Nicola Berti segue il ritmo lento della disillusione, che non lascia scampo.
Eppure, nella pesantezza del vivere, nell’insensatezza dell’essere, c’è anche spazio per l’ironia e soprattutto l’autoironia, salvagente esistenziale, forse, che qualche volta illumina le tenebre in cui – ignari – ci s’immerge, brancolando. “Avrei fatto meglio a fare il biglietto” è il finale sorridente di “Partire”, splendido raccontino minimalista, un po’ carveriano, e metafora candida di una vita che non si sa come prendere. Come una lunga, estenuante attesa di qualcosa. Forse una piena.