Referendum random
Mentre scrivo queste righe, i cittadini (vedremo quanti) di Lombardia e Veneto stanno votando ai referendum per chiedere al Governo più poteri alle rispettive Regioni. Al di là degli esiti, quei referendum confermano quanto la classe politica nostrana, da vent’anni, proceda improvvisando e senza una organica strategia; esattamente il contrario della capacità di visione, di equilibrio che servirebbero quando si mette mano all’ossatura istituzionale di un paese. Ma facciamo un breve e rozzo riassunto. La nostra Costituzione ha disegnato una Repubblica con un forte ruolo delle autonomie territoriali. Negli anni settanta, il legislatore ha di fatto costituito le regioni, affidandogli compiti e risorse. Negli ani ottanta, ha riassettato le autonomie locali (Comuni e Province),potenziandone e chiarendone ruoli e funzioni, senza però fare quel passaggio necessario che sarebbe stata l’autonomia fiscale (di cui tutti i governi seguenti si sono dimenticati!). Negli anni novanta, sotto la marcia trionfale della Lega, tutti (quasi) si sono scoperti federalisti (anche se nessuno, arrivato al Governo, ha rinunciato a politiche centraliste, da Prodi a Berlusconi ,fino a Renzi), quindi si è abbandonato l’autonomismo locale (la nostra vera essenza culturale ed istituzionale) per inseguire improbabili progetti di federalismo confuso e pasticciato. Così si è arrivati, per mano del centrosinistra, alla Riforma del Titolo V della Costituzione, che ha rafforzato così tanto il ruolo delle Regioni da produrre un doppio centralismo (statale e regionale), che è il contrario della semplificazione istituzionale, ma l’anticamera di conflitti e sprechi, che si sono puntualmente verificati, tant’è che, a destra ed a sinistra, anche sull’onda della crisi finanziaria, poi diventata globale, si sono ipotizzate due riforme (abbastanza simili) tese a bilanciare il ruolo delle Regioni con un rafforzato ruolo dello Stato centrale. Due referendum popolari hanno affossato quei tentativi, perché pasticciati, poco chiari e poco efficaci, ma anche perché i due primi responsabili di quelle “riforme” (Berlusconi prima, Renzi poi) hanno trasformato –soprattutto Matteo Renzi- i due appuntamenti elettorali in plebisciti su loro stessi, politicizzandoli, quindi uscendone sconfitti. Per inciso, va evidenziato che la riforma proposta dal Governo Renzi, bocciata dal sessanta per cento dei cittadini, era sostanzialmente diversa dal disegno istituzionale –quello sì davvero interessante- abbozzato dal Renzi Sindaco e “rottamatore”: riduzione delle regioni a sei, otto (macro Regioni), con poteri ben definiti, superando le Regioni a statuto speciale (le più costose per le finanze pubbliche), istituzione di enti intermedi al posto delle Province, rafforzamento del ruolo dei Comuni, restituzione allo Stato di competenze esclusive. Di tutto quel “riformare” compulsivo di questi vent’anni, alla fine, sono rimaste macerie sparse, ma soprattutto confusione, tant’è che un pezzo di PD, dopo aver sostenuto, pochi mesi fa, un referendum che riduceva i poteri regionali, in queste ore sta votando due referendum che propongono di aumentarli. Tutto questo, mentre l’Europa è percorsa da forti venti di secessione, ai quali la vera risposta –come ha mirabilmente ricordato Massimo Cacciari- dovrebbe essere la capacità di mettere in discussione alla radice gli Stati nazionali, ma per orientarsi con forza (almeno da sinistra) verso gli Stati Uniti di Europa. Quello dovrebbe essere l’orizzonte, su cui costruire poi le differenze e le strategie; quello forse è l’unico scenario in cui immaginare il giusto ri-equilibrio fra “comunità”, territorio e globalizzazione. Invece si continua ad improvvisare, inventandosi soluzioni istituzionali a seconda del momento e dell’audience. Riformatori confusi, pasticcioni, quindi anche un po’ pericolosi.