Investire a casa loro
Qui troverete alcuni buoni motivi per sconfessare le nostre chiacchiere infinite sull’Africa e pure sul tema delle migrazioni. Serve avere la pazienza di leggere fino in fondo e cercare di seguire dati, riflessioni, informazioni storiche.
La mondializzazione è una magnifica occasione per alcuni Stati e un cupo tormento per altri. È un gioco a somma zero. Chi vince la gara (stavo per scrivere guerra) della globalizzazione si espande costantemente e comanda sui mercati finali, risorse naturali, finanza, materie prime. Chi perde, come noi, fa le spese dei vincitori e non guadagna niente, anzi, ci perde. La differenza tra i vincitori e i perdenti non risiede però nelle risorse investite o in qualcosa di materiale, ma riguarda unicamente la capacità e la qualificazione delle loro classi dirigenti.
Potevamo inviare anche noi, in Africa, torme di imprenditori agricoli o di Piccole e Medie Imprese, ma siamo ancora legati alla narrazione, del tutto priva di fondamento, del “buon selvaggio” che ha unicamente bisogno di aiuto. E gli aiuti non sono investimenti. Nel caso delle attuali grandi migrazioni dall’Africa in Europa, per esempio, chi è sconfitto senza reagire (ed è questa appunto la caratteristica della “terza guerra mondiale a pezzi” citata da Papa Francesco) è oggi l’Europa, chi vince sono la Cina e alcuni altri Paesi. Chi vince (e qui si tratta solo marginalmente dell’Occidente) si prende le immense materie prime del Continente Nero; chi perde, noi, si accolla solo il mantenimento sine die di masse infinite di popolazioni a bassa o nessuna qualificazione professionale. E dovrà pagare le future materie prime africane al prezzo di chi le possiede. Sono infatti la Cina e la Federazione Russa, insieme al Brasile, soprattutto dopo che è stato siglato il primo accordo tra i BRICS, (Brasile, Russia, India, Cina e dal 2007 anche il Sud-Africa) a New York nel 2006, a comandare tutto il mercato africano.
Ho detto “mercato” e non aiuto a fondo perduto alle popolazioni. Gli aiuti finiscono e si dimenticano, la costruzione di un’economia che funziona si ricorda per generazioni. Che è, sempre per i BRICS e soprattutto per la Cina, una grande opportunità e per noi solo una colossale spesa, connessa a disastri geopolitici che oggi possiamo solo immaginare.
Se, infatti, il costo della migrazione sarà tale da mettere in ginocchio Paesi UE già in crisi fiscale, allora molte quote di mercato globale detenute oggi da alcuni Paesi europei, Italia compresa, andranno ad altri. Se, invece, rimarrà una qualche stabilità economica per l’Italia o la Spagna, allora la formula produttiva di questi due Paesi sarà meno complessa e meno concorrenziale.
Chi investe con successo nel Continente Nero, quindi, si prende manodopera a basso costo ed estrae materie prime che hanno il prezzo di chi dirige l’estrazione, visto che per molti minerali, in Africa, si è in condizioni di semi-monopolio. Basti pensare al coltan, la columbite-tantalite, che si estrae quasi unicamente dal territorio della Repubblica Democratica del Congo e che, dopo essere stato l’oggetto di una guerra civile per procura da 5,4 milioni di morti, oggi è nelle mani dei cinesi per il 98%. Chi ha in mano il coltan domina infatti le tecnologie informatiche, quelle spaziali e quelle biomedicali, tra le altre.
Non dimentichiamoci nemmeno dell’oro africano, estratto dalle aree a dominio cinese. Sarà infatti l’oro a determinare il futuro passaggio da una finanza globale dominata dal dollaro Usa a un nuovo equilibrio monetario non diretto dagli interessi nordamericani. Russia e Cina stanno facendo, non a caso, incetta d’oro in questi ultimi anni.
Ma andiamo ai dati: nel 2013 Pechino investiva 26 miliardi di Usd in tutta l’Africa, mentre nel 2017 Xi Jinping ha offerto, solo come prestito panafricano, ben 60 miliardi di Usd e un ulteriore pacchetto di aiuti per altri 34 miliardi di Usd. Gli Usa, dal canto loro, vogliono investire 1,3 miliardi di dollari nell’area sudafricana, mentre Washington continua a sostenere l’Egitto (7,5 mld) la Nigeria (4,2 mld) il Congo (5,8 mld) e l’Etiopia (6,9). Fuori dall’area BRICS, sono infine disponibili attualmente altri 3 miliardi di Usd, provenienti dai soli investitori privati, e comunque diretti in Africa. C’è chi, dall’Occidente o soprattutto dai BRICS, investe in aree africane a bassissimo costo di manodopera, ma passibili di un rapido sviluppo dei mercati interni. Ci sono invece quelli che, del tutto incapaci ad investire con successo in Africa, e ormai in crisi finanziaria pubblica e privata, si prendono solo le ondate di migranti. Peraltro, in tutto il continente nero gli investimenti esteri diretti, mentre crollavano in tutto il resto del globo, sono rimasti stabili al livello di 54 mld. di dollari.
In tutto il mondo si investe soprattutto nelle economie in fase di sviluppo, e questo spiega inoltre il costo e la scarsezza di fondi per i Paesi già industrializzati oggi in crisi, come l’UE del Sud. Le economie del Terzo Mondo oggi in crescita assorbono il 35% di tutti gli investimenti esteri diretti nel mondo, mentre la Cina è il secondo investitore nell’area, il più grande dopo gli Usa.
Non è questa l’immagine dell’Africa trasmessa dai poveri e disinformati mass-media italiani, che immaginano i nostri migranti in fuga da chissà quali disastri biblici. Che ci sono, beninteso, ma che derivano in gran parte dal fatto che tutta l’Africa è un immenso “stato fallito”. Chi ha le gonadi militari e strategiche ci può andare nel continente nero, chi non le possiede più può solo scrivere sulla cartina geografica, come gli antichi romani, hic sunt leones. No, quelli che arrivano da noi sono, quindi, le masse di manodopera in eccedenza o non impiegabile. Che non ha chiaramente nessun welfare state a cui far riferimento.
Sul piano dei dati macroeconomici, che incorporano anche gli investimenti diretti, dopo almeno 15 anni di crescita del PIL annuale, in tutta l’Africa, del 5% medio, oggi siamo a un tasso di crescita sul PIL quasi italiano, l’1,7%. È proprio questo rallentamento che ha ingenerato la crisi migratoria, non altro. Un rallentamento della crescita africana mentre si espande ancora la popolazione e iniziano a crescere anche i consumi, con un ceto medio locale che ormai conta, in tutto il continente nero, circa 350 milioni di persone. Angola e Nigeria sono poi entrate in recessione nel 2016, mentre nell’anno successivo, malgrado tutto, la crescita è ritornata ad un ottimo 3% medio. Una recessione che proietta i suoi effetti negativi in tutta l’Africa subsahariana. E Pechino, qui, continua a espandere il suo spazio: sono oggi almeno 12mila le imprese cinesi operanti in tutta l’Africa, con un terzo di esse che opera nella manifattura, un quarto nei servizi, un quinto rispettivamente nel commercio e nell’immobiliare.
L’esercito industriale di riserva, che è in Africa unicamente un costo, viene allontanato dalle aree dove investono i vincitori della globalizzazione e inviato, quindi, tra i perdenti al gioco della “terza guerra mondiale a pezzi” di Papa Francesco. Il 12% della intera produzione africana è infatti, già oggi, nelle mani della Cina, mentre almeno il 50% del mercato delle costruzioni è operato, nel continente nero, da imprese cinesi. Nelle aziende possedute dal regime di Pechino, pubbliche o private che siano, l’89% degli impiegati è comunque africano. La Cina si ricorda sempre, nei suoi investimenti all’estero, dei “dieci principi di Bandung”, stabiliti nel 1955 dalla Conferenza dei Paesi non-allineati: il non-intervento negli affari interni, il rispetto dei diritti delle popolazioni, l’astensione da ogni pressione politica o strategica, la promozione della cooperazione paritaria. Non c’è quindi da meravigliarsi se i paesi africani accettano di buon grado la presenza economica cinese e tendono invece a rifiutare quella occidentale, saccente e ossessionata dalla “esportazione della democrazia” o da operazioni sgangherate e autodistruttive come le primavere arabe. L’Occidente non capisce l’Altro e, quindi, nemmeno sé stesso.
Con tali fesserie, allora, l’UE e gli Usa si sono autoesclusi dalla presenza massiccia nei mercati futuri. Chi mai accetterà la parola o il sostegno di chi ha promesso sostegno a Gheddafi e poi l’ha fatto trucidare da qualche jihadista di ritorno dall’Iraq? Chi mai prenderà sul serio il sostegno economico di quelli che, appena entrati in un qualsiasi paese africano, vogliono creare nuovi partiti politici o potenti gruppi di pressione, come gli Usa fecero con la Serbia all’inizio degli anni ’90?
La Federazione Russa propone, al contrario di Pechino, ai suoi partner africani operazioni mirate: la Rosneft russa compra, fin dal 2017, petrolio dalla National Oil Corporation libica. In Algeria, storico partner dell’URSS prima e ora della Federazione post-comunista, le vendite di armi russe sono ai massimi livelli e funziona anche una collaborazione speciale tra le intelligence dei due Paesi, al fine di contrastare il jihadismo. Anche ai servizi tunisini i russi offrono continuamente immagini satellitari aggiornate sui movimenti dei gruppi islamisti terroristi in tutto il Sahara mentre, invece, i partner occidentali di Tunisi si curano poco della stabilità dei regimi post-primavere. Mosca, comunque, malgrado non investa in Africa con i volumi colossali dei cinesi, intende operare nel continente nero attraverso la recente Banca di Investimento dei BRICS. La Russia, inoltre, ha cancellato unilateralmente oltre 20 miliardi di Usd, che è una buona parte del debito che alcuni Paesi africani avevano con la Federazione. Inoltre, Mosca opera nel commercio bilaterale con le preferenze e gli aiuti selettivi. Una parte minima, quindi, quella russa, dell’impegno cinese nel continente nero ma che dovrebbe espandersi molto nei prossimi due anni. Anche il Brasile opera oggi soprattutto in Sud Africa che, secondo Goldman Sachs, sarà l’economia mondiale emergente del 2018.
Sono allora questi i Paesi, Cina, Russia, Brasile e India, che aiutano gli africani “a casa loro”, altro che le nostre chiacchiere da bar elettorale.