Davide Orecchio, Città distrutte, il Saggiatore 2018, pag. 266, € 20,00
«Ciascun trauma non si limita al presente della sua mortificazione ma per l’individuo che lo subisce si emenda in un fardello che cadrà solo con la fine del suo tempo, o con la cura. Il trauma è fertile, vorace, duraturo, virale. Capita che si trasmetta di padre in figlio. Può diventare cultura. Senza argini è incapsulato, disseminato, tramandato. Ogni ferita è per la personalità una mina inesplosa i cui elementi psicotici isolano e paralizzano […].»
[da Davide Orecchio, “Un esilio (1980-1984)” in Città distrutte].
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Viviamo purtroppo un’epoca in cui i libri hanno una vita pubblica brevissima, salvo i pochissimi che per vari e non sempre onorevoli motivi riescono a sfondare il muro della popolarità. Spesso la vita pubblica di un libro è ridotta a qualche settimana di esposizione in evidenza in libreria, a poche citazioni e recensioni su social network, blog letterari e (più raramente) testate cartacee entro un paio di mesi dalla sua uscita, a qualche sussulto in caso di vittoria di premi letterari. Che un libro di narrativa italiana veda una seconda edizione con un nuovo editore a sette anni dalla precedente è una notizia notevole. Se il libro in questione è il libro di esordio di Davide Orecchio, Città distrutte, uscito per la valorosa collana Godot di Gaffi editore a cavallo tra 2011 e 21012, la notizia non fa che confermare come il percorso dello scrittore romano sia nel frattempo evoluto mantenendo le promesse di un esordio molto ben accolto e abbia definitivamente acquisito con Mio padre la rivoluzione (Minimum fax, 2017) una centralità indiscutibile nel panorama della nuova narrativa italiana.
Siano dunque intessute tutte le possibili lodi dell’editore il Saggiatore, già responsabile della seconda opera di Orecchio, Stati di grazia (2014), che riporta adesso in libreria Città distrutte in una veste dalla copertina bellissima e arricchita da una postfazione di Goffredo Fofi. Un gesto anomalo, quanto anomalo è il valore di questa opera dal sottotitolo allo stesso tempo esplicativo e ingannevole:“sei biografie infedeli”.
Ingannevole perché rileggendo adesso il libro come si rileggono gli eventi del passato, ricercandovi a posteriori i semi di quanto poi è sbocciato, in queste sei indagini di personaggi a cavallo tra realtà e finzione (uno solo è inventato, gli altri sono solo mascherati) ci sono invece già tutte le stigmate di una molteplice fedeltà di Orecchio.
In primo luogo la fedeltà a una interrogazione della storia e del tempo come luogo del conflitto tra individui e potere, con un’attenzione profondissima e delicata nei confronti delle vittime, quasi la letteratura fosse anche una cura a loro orientata, oltre che un modo per fare giustizia. In secondo luogo la fedeltà a una ricerca di tipo linguistico con un già maturo sentimento di correlazione tra la potenza del trauma inferto dalla realtà allo scrittore, che i traumi propri e altrui fa risuonare dentro di sé, e la potenza della lingua; una lingua già a questa altezza tesissima all’inseguimento di una forma di rappresentazione della realtà di tipo espressionistico, polifonica, quando sproporzionata quando ellittica, bruciata, interrotta, potentemente metaforica.
La fedeltà, ancora, a un’idea di letteratura che, attraverso le maschere dell’infedeltà, è incatenata invece all’anima degli eventi. È forse questa la differenza più grande tra il lavoro dello scrittore di letteratura e quello dello storico: la letteratura è costretta a mentire proprio per dire tutta la verità che la storia non potrà mai dire. In fondo è sempre quella storia di Perseo e Medusa, e del riflesso nello scudo attraverso cui l’eroe riesce a affrontare il mostro. Ed è qui, in questi sei “scudi di Perseo” che Orecchio inizia a mettere a punto un suo metodo, scaturito forse proprio dalla necessità di affrontare una propria medusa personale, fonte originaria di domande e temi per tutta la sua letteratura: il rapporto con la memoria familiare. Prima di tutto con la memoria del padre, già fascista rivoluzionario in giovinezza, poi partigiano armato, marxista e comunista, uomo di intelligenza perennemente accesa e inquieta rivolta verso sè se stesso e il mondo, testimoniata in una lunga attività di giornalista e scrittore.
Sempre toccante è dunque rileggere queste sei storie, dietro cui, sotto falso nome compaiono le due figure decisive della biografia di Orecchio, il padre Alfredo (qui trasformato in Pietro Migliorisi) e la madre Oretta Bongarzoni (qui sotto le mentite spoglie di Betta Rauch), insieme ad altre vicende emblematiche dei temi che a Orecchio stanno a cuore, come il meraviglioso racconto Un esilio, ispirato alla vicenda del regista Andrej Tarkovskij. Soprattutto perché attraverso lo snodarsi di questi sei racconti resta integro il filo rosso di una vicenda che ci riguarda tutti nelle nostre più remote profondità: il rapporto di ogni uomo con le forze imperanti nel luogo e nel momento della Storia in cui la sorte lo ha gettato, ognuno con la propria eredità e la propria volontà, con i propri nodi da sciogliere, con le ferite che non può evitare e con il carico delle proprie responsabilità.