Abderrahman Zarra, Inni d’amore, Edizioni ETS 2018, pag 36, € 8,00.
C’è una luce che attraversa la poesia di Abderrahman Zarra, può essere quella del sole che porta il mattino, la luce crepuscolare, la luce forte del deserto. Ci sono le ombre che la luce stampa intorno a cose e persone. E ombre preziose che valgono persone. Ma la luce più grande è quella di lei, essa stessa alba, mattino. La notte scompare nel pensiero e nell’attesa di lei, ed è sempre mattino: “il mio mattino sei tu e io l’aspetto”; “il mio giorno non inizia col sole ma con la tua luce”.
Realtà e sogno sono presenti come elementi che tuttavia non restano giustapposti, ma si innestano l’uno nell’altro e si fondono. Bello il contrasto tra uomini piccoli e alberi giganteschi, tra la concretezza del bosco e la leggerezza di una farfalla che porta messaggi sulle ali.
L’immaginazione non ha confini, è fervida come quella di un bambino. “Ho scritto poesie perché ascoltavo Radio Londra – racconta Zarra in una interessante prosa di apertura che ci offre gli elementi per capire il suo mondo – Il mio babbo non si fidava dell’ora della radio marocchina perché il giornalista annunciava sempre l’ora in ritardo usando la parola “circa”…mentre Radio Londra annunciava l’ora precisa senza aggiungere altro…da bambino, vivendo in Marocco e ascoltando radio Londra, immaginavo quella città come un luogo dove c’è una campana enorme e tutti si fermano quando suona”.
Zarra ha un linguaggio lieve, senza artifici, di cui percepiamo la bellezza, ne emerge una visione positiva della vita: le passioni possono finire ma non si cancella ciò che ci hanno dato. Anche la cenere di una passione deve essere conservata, perché vi si respira il profumo del vissuto: “E allora io brucio, ma conservo la cenere:/ ha l’odore d’un profumo ed è profumo d’amore./E’ l’odore della vita che brucia,/e di tutto faccio un incenso,/che se fosse domani io chiamerei/ incenso della vita”.
L’attesa di lei non si arrende, supera le distanze anche di “novecentomila lunghi passi” e la rende sempre presente, perché “la tua ombra è stampata nel mio occhio, /non lo chiudo, non batto ciglio./nel mio sguardo c’è un’ombra/e io cerco sempre una luce per guardavi dentro”.
Il tempo si misura nell’attesa e nella presenza di lei, ma è crudele perché fugge troppo in fretta -tempo rubato all’amore-. Allora bisogna intervenire: “Domani farò un tempo mio, il mio orologio:/allungherò la durata delle ore con te;/accorcerò le ore quando non ci sei”
Scorrono immagini dell’Africa – Zarra è nato in Marocco nel 1977 e vive a Firenze da più di quindici anni – con le impronte sulla sabbia del deserto: “Il mio desiderio di te è un uomo che cammina/ sulle sabbie del deserto e ogni suo passo/si cancella con la forza del vento/che sposta i granelli qua e là”. Il vento è una presenza amica, perché fa volare, è libertà: “Lascia che il vento ti porti via, /ché volare è bellissimo”.
La mente torna al Piccolo Principe che avanza nel deserto con la sua rosa nel cuore.
Non è facile parlare d’amore in poesia senza cadere nel già detto, col rischio di scivolare nella retorica dei sentimenti, ma Zarra lo sa fare.