Quasi un consuntivo. Tre poesie per Remo Pagnanelli
freddamente primaverili le oche
passano sopra i gigli
possedute dal vento e dal sole
sopra le voci dei bambini tenuti
nei padiglioni non riverniciati
durante la passeggiata del pomeriggio
ho pensato Dio è con noi
se le oche incolumi ora guardano
dagli stagni e non scordano
i bei tempi che furono
*
figlia d’una luce increata, imitazione dell’amore,
ti congedo e non te ne vai, seguiti a coagulare
in pozze di foglie poco più grandi del cuore.
Ti dico vai (sono in tanti a non aspettare altro)
e lasciami…, non la senti la cadenza finale,
il pianissimo del soffio universale?
*
mio padre eterno estremo servo
che mai ho reso libero né liberato
raccoglie nella stanza le palle di neve
del mio lavoro, le carte arrotolate
di un passatempo scambiato per valore,
segni (per essere giusti) di un rigore
insanguinato
Di un Remo Pagnanelli la letteratura avrebbe sempre bisogno, come di uno specchio in cui ogni scrittore torna a riflettere in coscienza, nel senso proprio di pesarsi togliendo quanto – in fatto di vacuità, superficialità, banalità – tara il suo lavoro, e puntando dritto a ricomporre le questioni essenziali che, sul pieno etico ed estetico, riguardano l’opera. Ma di Pagnanelli, poeta e critico nato a Macerata nel 1955, dei migliori che la prima generazione post-bellica abbia mai avuto, si è finora parlato poco, se non in circoli ristretti, in genere fra addetti al lavoro, con rare ma significative escursioni nazionali oltre l’ambito geografico marchigiano (sicuramente da menzionare è la raccolta di saggi e interventi, a cura di Guido Garufi e Filippo Davoli, In quel punto entra il vento. La poesia di Remo Pagnanelli, Quodlibet, Macerata, 2009). Eppure è un autore dal quale non si può distogliere l’attenzione, per ripartire in vista di un nuovo, e oggi quanto mai auspicabile, sodalizio intellettuale fra scrittori critici insegnanti studenti editori.
La recente edizione delle poesie di Pagnanelli, a cura di Daniela Marcheschi, Quasi un consuntivo (1975-1987) (Donzelli, Roma, 2017), da sempre puntuale studiosa e testimone dell’opera a poco a poco scoperta e riletta dopo la tragica morte, nel novembre del 1987, del poeta di Macerata, ci permette di ripercorrere finalmente, dopo una prima edizione ormai introvabile del 2001, Le poesie, stampata presso Il lavoro editoriale di Ancona, l’intera opera in versi del poeta, con il suo semplice e bilanciato dispositivo di motivi che si incalzano, tracciando nervature inquiete ma solidissime, dalla prima raccolta Epigrammi dell’inconsistenza, che raccoglie poesie scritte fra il 1975 e il 1977, ma pubblicate solo nel 1992 (a cura di Eugenio De Signoribus, Stamperia dell’Arancio, Grottammare), ai postumi Preparativi per la villeggiatura, pubblicati nel 1988 (con una nota di Giampiero Neri, Amadeus, Montebelluna), senza dimenticare la plaquette vincitrice del premio Montale-Roma 1985, L’orto botanico (prefata da Maria Luisa Spaziani). Opera che, affiancata all’attività del critico (su autori come Penna, Fortini, Sereni, Caproni, Loi, Montale, Leopardi, Zanzotto, Giudici ecc., senza trascurare i minori e in particolare i marchigiani, zelantemente vagliati, insieme con il grande amico, poeta anch’egli, di Macerata, Guido Garufi, in un’antologia ancora oggi di riferimento, Poeti delle Marche, Forum, Forlì, 1981), ci restituisce l’immagine di un poeta che, diversamente da altri suoi coetanei, non si arrocca mai in una sua imprendibile poetica, ma cerca costantemente il confronto, alzando ponti e aprendo strade ancora oggi percorribili, e di grande interesse, per chi concepisce la letteratura come un laboratorio comune, condiviso, e non come una esclusiva turris eburnea. In tal senso, imposta bene il discorso, la Marcheschi, nella sua nota finale alla nuova raccolta dei versi, quando esalta la maturità e la consapevolezza con cui il giovane Pagnanelli, sin dal suo esordio, raccoglie il testimonio della tradizione, senza tuttavia abbottonarsi in uno stile confetto, anzi tentando in ogni modo lo scarto rispetto a una letteratura che, allora meno di oggi, pareva ancora in grado di difendere una propria radicalità sulle questioni più profonde che si pongono a ogni uomo (dal silenzio di Dio all’enigma della morte al senso della vita). La letteratura non ha niente di che consolare l’uomo, ancor meno diventando un’«autoterapia con fini di carriera» (scrive Pagnanelli in una lettera privata alla curatrice); piuttosto ha da interrogarlo, e non circa la sua acclarata ignoranza in merito al destino e temi affini, ma riguardo alla sua capacità di uscire dal raggio della sua ombra (su cui Pagnanelli scriverà una delle sue poesie più incisive: «Mia ombra mio doppio / talvolta mio amico ma più spesso / straniero che mi infuria ostinato…»), onde gettare lo sguardo di là dal proprio individuato egotismo, in tralice, obliquamente, sul mondo che attende l’Opera e ne vaglierà il senso, o se ne farà beffa, vi sniderà l’inganno. Una scrittura dunque, che ambisce a farsi “consuntivo”, quasi presagendo quel che la vita, destinata vuoi o non vuoi a concludersi, non può finire di consumare: ed è qui il profondo e generoso fondamento sul quale nasce la poesia di Pagnanelli, cioè (spiega la Marcheschi) nel «guardare la vita con distacco come da un altro tempo, nel laico interrogarsi sulla presenza della morte, sulla sua natura onnipervasiva e distruttrice».
Questa idea di una poesia come martyrion, da intendere in senso proprio di testimonianza (che non esclude il sacrificio), trapela tutta già dagli Epigrammi del ventenne Pagnanelli, con un’asciuttezza intensa che, se proviamo a collocare nel torno d’anni in cui essi furono composti, non possono che stupire; e si preciserà nella raccolta matura, che vedrà la luce dopo la morte del poeta, dico in quei Preparativi per la villeggiatura – titolo amaro di una decisione esiziale chi sa quando presa – da cui abbiamo scelto le tre poesie citate in apertura di questo intervento, fra tante altre che possono tornare, a ogni lettura, a catturarci (mi piace citare quella percorsa da una vena fortiniana: L’hidalgo è stanco) per quel senso di intima urgenza che ne turba la superficie limpida, classica, increspandola come una mano invisibile che lascia scorgere, dietro il velo lucido e disteso del loro pensiero, una fonte sotterranea, più misteriosa, da cui spira un «soffio universale» (come si legge nella prima poesia) che sfiora i nostri sensi e accende una sete nuova, implacabile, di verità. Di che cosa è fatta questa vita che si consuma in giorni, apparentemente affrancati da un continuum logico-temporale, e di cui Pagnanelli, ancora dopo anni, ci lascia una sorta di consuntivo in versi, non lo sapremo mai; e la ragione è tanto semplice quanto complessa da afferrare dal momento che ogni verso, ogni giuntura sintattica e semantica, ogni parola che compone la poesia – se si parla davvero di poesia – non può che stagliarsi con una gestualità drammatica, definitiva, non nel senso che non ammette repliche, ma in quanto prova a rintracciare (come avviene, per esempio, in quella bella prosa cimitero di guerra che sopraggiunge verso la fine dei Preparativi) in situazioni od occasioni disparate l’adempimento di un destino. Sia pure del più lieve e inconsistente destino.