E se i “sovranisti” fossero sfidati con un referendum sull’Europa?
Forse è l’ora che i riformisti invochino un referendum sull’Europa. Sembra una provocazione, ma non lo è. Giorni fa il Presidente degli Usa, Donald Trump, annunciando nuovi dazi contro la Cina, ha citato di nuovo anche l’Europa come “nemico”, perchè i suoi mercati non sarebbero in linea con quelli americani nelle condizioni di scambio. E’ del tutto evidente, insomma, che oggi le sfide che abbiamo di fronte si giocano su mercati e scacchieri ben più ampi degli Stati-nazione. La nuova globalizzazione nel suo sviluppo odierno (perché la globalizzazione esiste da quando, nel terzo secolo avanti Cristo, le città-stato della Mesopotamia si svilupparono, commerciando fra loro ed arrivando fino in Egitto e Persia) si integra ed intreccia con la digitalizzazione ed internet, oramai superando e travolgendo i confini nazionali. Le supply chain, le grandi arterie di comunicazione (materiali ed immateriali), le dorsali intercontinentali, le infrastrutture viarie, ferroviarie, marine sono i veri poteri “federatori” del nostro mondo e, per definizione, non conoscono i limiti geopolitici disegnati sulle carte geografiche. Più di tutti se ne è accorta la Cina che sta conquistando pezzi di pianeta, a partire dall’Africa, non con gli eserciti ma con servizi e connessioni, che poi producono legami e dipendenze. La nuova “via della seta” è anche lo strumento delle nuove relazioni con l’occidente, applicando in pieno il punto di vista per cui, oggi, la sovranità non sta nel possesso del territorio, ma nel suo utilizzo. Entro il 2030 più del settanta per cento della popolazione mondiale vivrà in aree urbane a non più di ottanta chilometri dal mare; cioè il potere sarà in mano alle grandi città, che ormai hanno una loro diplomazia extra-statale. Tant’è che l’influente politologo, Parag Khanna, sostiene che il futuro non è tanto degli Stati ma delle città-Stato, cioè di veri e proprio net-work di aree metropolitane interconnesse, che si collocano nei pressi della grande infrastrutture interstatali, dentro i nodi interattivi, e che però hanno bisogno di aggregarsi attorno ad aree e mercati dai confini ampi e garantiti da regole condivise: “le città e gli imperi, non gli Stati, sono stati il comune denominatore della storia” . E’ come se stessimo assistendo all’inversione di quel processo che, concluso con la pace di Vestfalia, nel 1648, portò alla dissoluzione dei grandi imperi, passando attraverso la frammentazione medievale, fino alla nascita degli Stati-nazione. In questo processo di frammentazione/riorganizzazione in grandi macro-aree di libero scambio (non solo di merci) è del tutto evidente che la dimensione per gestire i problemi di crescita, sviluppo delle infrastrutture intercontinentali, domanda-offerta, servizi di welfare, per noi si chiama Europa. Lo ha capito Trump – tant’è che vuole indebolirla-, dovremmo averlo capito anche noi. Hanno ragione gli attuali governanti italiani, quando invocano il primato della politica sulla finanza o sulle agenzie di rating, ma quel primato non lo affermi certo con le politiche di un paese, ma con la “massa critica” di un mercato, quello europeo, che abbraccia oltre mezzo milione di consumatori. Non c’è dubbio che questa Europa debba essere cambiata, anche radicalmente, anche nel suo rapporto fra politiche e rappresentanza, e la soluzione più adatta a mio parere è la federazione di Stati (a loro volta “federazioni di città”), ma di Europa, di più Europa, di migliore Europa, c’è davvero bisogno. E sono pure convinto che gli italiani lo abbiano capito. Tuttavia, siccome non possiamo continuare con atteggiamenti pieni di ambiguità – di una parte della nostra classe politica, oggi con suoi esponenti al Governo del paese- sul nostro futuro europeo, facendo intendere che si sta in Europa, si sta nell’euro, ma si vorrebbe uscire o far saltare tutto, allora, fossi un dirigente riformista (e per loro fortuna non lo sono), sfiderei le forze euroscettiche, proponendo un referendum sull’Europa. Lo so che ci sono problemi e limiti di natura costituzionale, ma credo che l’emergenza che si va producendo consente di cercare soluzioni praticabili. Perciò di lanciare la sfida.