Poesia in penombra: Lalla Romano
Le strade
Mi parve udire il suono del tuo passo,
ma poi non t’ho veduto; ad una ad una
ho percorso, cercandoti, del borgo
nella sera le strade silenziose.
Donne siedono immote ad ogni soglia,
ed inerti nel grembo hanno le mani.
Sul loro volto è un colore riarso
come la terra delle strade. Ferma
nei loro occhi vuoti si rispecchia
la chiarità del cielo. Paziente
ciascuna attende l’ignoto viandante.
Nessuno passa nella via deserta.
L’opera di Lalla Romano (1906-2001) è ricca di penombre, e in ciascuna di queste si annidano sorprese che meritano di tornare alla luce: al riparo dal tempo che è passato, niente potrà sciuparle, anzi la loro riscoperta (com’è avvenuto nella bella mostra organizzata presso la Casa della Poesia di Urbino, Immagini dalla penombra. Lalla Romana, avvolgimenti di poesia e pittura, a cura di Vittorio Sgarbi e Antonio Ria, con poesie scelte da Gabriella D’Ina, aperta fino al 30 settembre 2018; e di cui uscirà il catalogo a cura di Luca Cesari) non porta solo nuovi elementi per valutare l’opera della narratrice e artista, ma anche per meditare sul valore della sinergia artistica Ut pictura poesis, e viceversa, che in pochi casi come in questo di Lalla Romano sembra attagliarsi perfettamente allo spessore dell’autrice.
Lalla Romano nasce all’arte, in effetti, come pittrice (allieva universitaria di Lionello Venturi, frequenta lo studio di Felice Casorati), aprendo sporadicamente qualche finestra di prosa narrativa negli anni Trenta (Le cronache di sartoria, L’abito da ballo, Una cena di artisti ecc.), fino alla “conversione” che matura nel corso degli anni quaranta, fra la traduzione dei Trois contes di Flaubert (commissionatagli da Pavese) e la morte del padre, nel 1947, anch’egli pittore, mentre viene alla luce la prima raccolta di poesie, Fiore (Frassinelli, 1941) su incoraggiamento di Montale, nonostante il rifiuto di Einaudi, che invece avrebbe accolto le prose de Le metamorfosi (1951). Significativo che mentre comincia l’avventura narrativa della Romano con Einaudi, si spenga quella pittorica, e la poesia conosca un secondo breve episodio, con L’autunno, che riporta una nota di Carlo Bo (Edizioni della Meridiana, 1955). Dalla metà degli anni Cinquanta l’opera della Romano si dipana fondamentalmente attraverso il terreno della narrativa, che raggiungerà negli anni Sessanta – mi pare di poter dire – i suoi risultati più alti, con La penombra che abbiamo attraversato (1964) e Le parole tra noi leggere (1969). Ma come un fiume che sembra aver imbroccato un solo letto, dopo essersi nutrito di diversi torrenti, onde poi tracimare in nuovi ruscelli, così l’opera della Romano torna alla poesia alla metà degli anni Settanta, con la raccolta Giovane è il tempo (1975), che riprende le fila delle precedenti riannodandone i temi e gli stilemi come se niente fosse passato e il tempo avesse lasciato solo una leggera patina da spolverare per rivedere le immagini nel loro nitore, così come succede a volte ai bei quadri depositati, e poi dimenticati, in una soffitta o dietro un armadio, cui basta poco, una volta riappesi alla parete, per illuminare una stanza. Un cammino analogo tocca alla produzione pittorica della Romano, rimasta fuori dal perimetro dell’opera letteraria, segnato con precisione nell’edizione in due volumi dei Meridiani (1992), a cura di Cesare Segre. La produzione pittorica, riscoperta nel 1993 con una mostra antologica a cura di Antonio Ria, organizzata a Torino, presso il Circolo degli Artisti, non è altra rispetto a quella letteraria, ma ne costituisce l’essenziale antefatto e continuazione (per usare dei termini che fanno comodo solo sul piano cronologico). Dagli anni Novanta la figura dell’autrice sembra finalmente ricomporsi nella sua unità e, soprattutto, nella sua contiguità di scrittura e pittura: «In realtà io “dipingo sempre” – scrive la Romano – mentre guardo: allo stesso modo “scrivo sempre”. Così sono vissuta, così vivo… Devo compiere il passo definitivo. Riconoscere che la mia pittura era scrittura». Sono già molti gli studiosi che hanno sottolineato, all’interno dell’opera della Romano, la ricorsività dei due linguaggi – quello letterario e quello figurativo – che si prestano l’un l’altro i campi metaforici per arrivare a definire qualcosa che ormai non può più sfuggire a chiunque voglia approfondire la conoscenza della letteratura del Novecento e coglierne la moderna complessità artistica, quale si realizza non solo nei manifesti programmatici delle avanguardie, ma anche in singoli appartati percorsi (come quello appunto della Romano, ma potremmo citare per esempio, per altri aspetti, anche Dino Buzzati, Mario Soldati, Tonino Guerra), che danno un’idea evidente delle sfumature e, direi anche, della ricchezza di strade che ancora possono essere scoperte.
Probabilmente è stato questo a indurci a scegliere, come esempio di lettura in questa sede, la poesia che apre la prima raccolta di Lalla Romano, Le strade, che sembra emblematicamente raccogliere nel suo tenero guscio metrico, di semplici regolari endecasillabi spartiti in tre stanze di quattro versi, una energica visività figurativa, quella che potremmo aspettarci da una giovane promettente artista qual era Lalla Romano agli inizi degli anni Quaranta. La lezione pittorica si legge nel modo in cui sono scandite le immagini: dalla prima stanza che si apre sul soggetto lirico in posizione d’attesa verso qualcuno di cui sembra udire il passo, prima di riconoscerne il mancato arrivo; alla seconda stanza che osserva la condizione del soggetto riflettersi in quello delle altre donne, «immote» sulla soglia di casa, le braccia «inerti», lungo strade di un colore «riarso», esattamente come in un quadro che fotografa per sempre un senso di passività inscritto, oltre che nell’ansia di un arrivo, anche nel gender del soggetto: di donna destinata, sotto la «ferma / chiarità» (di grande effetto l’enjambement interstrofico) del cielo, ad aspettare quell’«ignoto viandante» che la terza e ultima stanza rivela ma anche vela, dal momento che nega altri indizi, con parole in cui echeggia qualcosa di Leopardi, subito risolto su un orizzonte metafisico in cui «Nessuno passa nella via deserta» raffredda definitivamente quel tuo di sapore montaliano che aveva aperto il testo («Mi parve udire il suono del tuo passo»). Modelli poetici e modelli pittorici mescolano i paradigmi della loro visività, e non è difficile pensare agli immensi zenitali silenzi di Sironi o di Morandi, per non dire di De Chirico, che squarciano questa breve lirica della Romano, sottraendola a qualsiasi affiliazione di scuola, e restituendola alla sua originaria urgenza esistenziale.