LE BRUIT DES CABARETS, LA FANGE DU TROTTOIR
Le bruit des cabarets, la fange du trottoir,
Les platanes déchus s’effeuillant dans l’air noir,
L’omnibus, ouragan de ferraille et de boues,
Qui grince, mal assis entre ses quatre roues,
Et roule ses yeux verts et rouges lentement,
Les ouvriers allant au club, tout en fumant
Leur brûle-gueule au nez des agents de police,
Toits qui dégouttent, murs suintants, pavé qui glisse,
Bitume défoncé, ruisseaux comblant l’égout,
Voilà ma route – avec le paradis au bout.
IL CHIASSO DELLE BETTOLE, IL FANGO DEL MARCIAPIEDE
Il chiasso delle bettole, il fango del marciapiede,
i platani malconci che si sfogliano nell’aria nera,
l’omnibus, uragano di ferraglia e melma,
che stride, sconquassato sulle ruote,
e rotea gli occhi verdi e rossi lentamente,
gli operai che vanno al circolo fumando
pipe puzzolenti sotto il naso dei poliziotti,
tetti che grondano, muri fradici, lastrico viscido,
bitume sfondato, rivoli che intasano la fogna,
è questa la mia strada –e il paradiso in fondo.
Credo che Paul Verlaine non abbia bisogno di presentazioni, è più di un poeta, forse è un’epoca, o meglio ancora è una fessura in un’epoca, cioè l’Ottocento che ne ha già diverse (da Leopardi a Baudelaire a Rimbaud) quando la poesia, come un piccolo antico regno all’inizio della sua decadenza (per travasare dallo stesso Verlaine un’immagine famosa, passata in giudicato per semplificare un torno d’anni: il Decadentismo), libera i colori più forti e i profumi più intensi. Perché non si cessa di leggere l’autore di Chanson d’automne? «Les sanglots longs / des violons / de l’automne / blessent mon coeur / d’une langueur monotone…», così inizia questa poesia di Verlaine, che ha avuto centinaia di traduzioni in tutto il mondo, e chi sa quante inutili parafrasi, e non può tornare viva alla memoria se non nella sua lingua madre, non perché il francese sia la lingua più bella del mondo, ma perché in questi versi essa raggiunge uno dei suoi picchi assoluti di freschezza fisico-acustica e rapimento emotivo. Come se l’immagine dei lunghi singhiozzi dei violini dell’autunno non potesse sopravvivere agli stessi suoni che la esprimono, scoraggiando i tanti che vi si avvicinano per tradurla, illusi di carpirne il segreto linguistico e di riprodurlo in un’altra lingua. È probabile che solo in francese l’autunno goda di un concerto di violini che, con i loro lunghi singhiozzi, ne descrivano la malinconia.
Tradurre (ammesso che sia sempre possibile) i versi di Verlaine non è solo un esercizio linguistico, ma un momento per riflettere sulla ragione della poesia, sul suo valore oserei dire “chimico” (nel senso etimologico, dall’arabo al-kimija, probabilmente dal greco chyméia, ‘mescolanza’), che non cessa di spiazzare e magari di stupire quanti non sanno più ascoltare il silenzio. La “musica” delle poesie di Verlaine, che più volte lettori e studiosi hanno esaltato, si lascia meglio apprezzare nella sua lingua madre, soprattutto nelle condizioni favorevoli in cui la società della seconda metà dell’Ottocento si avvia a svilupparsi, fra la prima e la seconda rivoluzione industriale, primo spopolamento delle campagne e conseguente inurbamento delle periferie cittadine, in cui ondate di contadini si riversano nella speranza di un lavoro più dignitoso, e trovano quartieri dormitorio senza luce, né acqua, né fogne, con strade ancora attraversate da carrozze, carri e animali: un mondo in cui la tecnologia non ha ancora intasato ogni ora della giornata. L’Ottocento non è ancora il “secolo del rumore”, e il suono delle parole ha ancora un peso specifico, non ha subito la svalutazione inflattiva che toccherà al Novecento. Perciò Verlaine ci apparirà tanto vicino quanto lontano (molto di più di un Baudelaire o di un Rimbaud, ma non meno di Mallarmé), come un sogno così nitido e ricco di particolari che noi possiamo credere di aver fatto prima in pieno sonno e invece l’abbiamo avuto solo poco prima di svegliarci.
E come un sogno per me è stato leggere e, di tanto in tanto, tornare a Verlaine, nell’illusione di comprendere in che punto della storia la poesia occidentale si è fatta lingua, senza cedere un centimetro all’urgenza della comunicazione dei sentimenti privati, e nello stesso tempo ha perso l’aureola! Il che può apparire una cosa ben strana, se non badassimo agli effetti paradossali che la critica della modernità sortisce nella cultura contemporanea: come ci si può accontentare di quel nuovo benessere (sotto la cui accomodante etichetta si cela l’ambigua fede nel progresso, e quindi si agita la macchina del profitto) che sembra garantito a pochi esseri umani, mentre il resto del mondo vive in un perenne stato di bisogno e di indigenza? Mi ha sempre colpito che negli anni in cui Baudelaire (nato nel 1821) si affacciava alla poesia e alla critica d’arte, frequentando il Club des Haschischins, insieme con Nerval, Gautier, Balzac, Delacroix, Dumas padre, il celebre medico Moreau (che studiò gli effetti delle droghe sul sistema centrale nervoso), due giovani suoi coetanei, Marx (nato nel 1818) ed Engels (nato nel 1820) si lanciavano in una critica capillare e devastante dell’economia classica, pervenendo al concetto di “alienazione”, e intanto traducevano la teoria in prassi pubblicando il Manifesto del partito comunista (1848). E Verlaine cosa c’entra in tutto questo? C’entra perché la sua poesia – e quella sopra selezionata (da La bonne chanson, 1870; con la traduzione del sottoscritto, ora in 30 poesie, Raffaelli, Rimini) ne è una prova – cerca una via nuova di fronte al futuro che si andava profilando in quegli anni. Una via in cui il desiderio di fuga diventa un gesto di riscatto sentimentale, forse morale, e viceversa, senza dimenticare l’origine di questa contraddizione, senza chiudere gli occhi con una vana nostalgia di quanto è finito (ma quando il vecchio mondo è davvero finito?). Se dietro la scenografia consueta di un sobborgo metropolitano, i suoi vicoli maleodoranti e malfamati, le bettole chiassose, gli omnibus affollati, i marciapiedi sconnessi, e così via – sorta di metafora del mondo in cui viviamo – si apre la strada che porta al “paradiso”, non si può dire che il compito della poesia sia finito, tanto meno che lo sguardo di chi scrive (o di chi soltanto legge) la poesia abbia cessato di esprimere qualcosa di importante, e in fondo anche di vero, dal momento che scaturisce dalla contraddizione in essere (e mai così viva, come in questo scorcio di storia dell’umanità) fra poesia e realtà, ovvero tra una forma di scrittura che aspira all’essenziale e una forma di organizzazione sociale che relega questa aspirazione, quando va bene, nel cassetto privato di una vecchia scrivania. Certo, in quel cassetto, ogni lettore che arriverà all’ultimo verso potrà pensare quello che vuole: il poeta ci lascia liberi di voltare pagina e di chiudere il libro, domandandoci se tutto questo serve a qualcosa, perché la libertà è una qualità della vera poesia, ed è un dono che non ha bisogno di risposte.