Noi europei contro l’indipendentismo scellerato
«Questo tempo non è il mio». La voce dolce-amara di Jaime Gil de Biedma arriva da lontano mentre la Peugeot di Javier Cercas percorre le strade dell’Empordà, una delle zone della Catalogna più profonda. È il gennaio 2018. Sotto il sole grigio si intravedono le poche case di Ultramort, il villaggio dal nome spaventoso dove il poeta della «Generación del ’50» si rifugiò, prima di morire, per trascorrere in solitudine «una seconda infanzia prolungata». È chiaro che molti tempi non appartengono a chi viene costretto a frequentarli, ma l’avvertimento immaginario di un non-vivo, coniugato al presente, colpisce come una freccia il bersaglio.
Una mano sul volante, l’altra che ogni tanto disegna l’aria, Cercas pensa, parla, guarda il paesaggio di questa specie di Toscana senza cipressi dove si ritira a leggere, sapendo però che «è più difficile vedere le cose evidenti che abbiamo davanti agli occhi, non quelle nascoste». Sarà anche per questo che la sua riflessione, oggi, è legata all’obbligo di convincersi che «anche noi stessi europeisti siamo diventati i nemici di questa idea visionaria». «Non abbiamo avuto la capacità di dimostrare — mi dice a Barcellona, poco più di un anno dopo quel nostro ultimo incontro — che l’Unione europea non è un’invenzione artificiosa, ma una necessità fondamentale della gente comune, il solo modo per sconfiggere l’irrilevanza e per inseguire la prosperità».
Ma torniamo indietro a quell’inverno. Da Ultramort andiamo a L’Escala, svuotata dal freddo, dove il vento sembra soffiare l’anima soltanto dentro le cose. Nel ristorante sulla Platja de les Barques le lingue sono molte, ma le parole urlate forte nei mesi precedenti, dopo la proclamazione dell’indipendenza (in uno scenario che lo storico Josep Fontana definì «prebellico»), sembrano scorrere come sottotitoli in catalano sulle finestre appannate: «¡Libertat, democràcia!». Prendendo in prestito la metà amara della voce di Gil de Biedma, il cui spirito continua ad accompagnarci, Cercas si lascia sfuggire che «la crisi divide, rompe i rapporti di amicizia». «Conosco persone — aggiunge — che non mi parlano più perché non sostengo la loro causa».
Anche per lui, insomma, il tempo rischia di diventare un nemico. È impossibile fermarlo, il tempo. La storia è fatta invece di attimi, come sa bene chi ha scritto un libro eccezionale, Anatomia di un istante. Gli chiedo, quando ci rivediamo qui a Barcellona, se esista un’immagine-simbolo di questa nostra epoca recente, un’immagine come quella su cui ha costruito il suo romanzo: i deputati delle Cortes che si nascondono sotto il banco (tutti tranne due) durante l’irruzione del colonnello Tejero per il fallito golpe del 23 febbraio 1981. «Forse — risponde — è la scena, vista in tutto il mondo, in cui la giornalista ungherese Petra Laszlo sgambetta un migrante con un bambino in braccio e tenta di dare un calcio a una donna». Perché? «Perché l’Europa è anche un’idea morale: proteggere la gente che non ha potere».
Il gesto assurdo di Petra Laszlo, «un atto istintivo che dimostra quello che siamo», è avvenuto nel settembre 2016, al confine tra Serbia e Ungheria. Scopriamo che la sua vittima, Osama Abdel Muhsen Al Ghadab, è poi arrivato insieme al figlio in Spagna, dove ha ottenuto asilo politico e allena una squadra di calcio. Anche lui, quindi, partecipa senza essere materialmente presente a questa nostra conversazione. Siamo in una saletta del bar Escocés, nel quartiere di Sarrià, controllati discretamente da un anziano cameriere, in livrea bianca e bottoni d’oro, che ci aveva squadrato all’inizio con uno sguardo da sfinge.
È una sera di fine marzo. Si avvicinano le elezioni politiche spagnole del 28 aprile («in questa campagna elettorale nessuno parla di Europa») che saranno seguite un mese dopo da quelle per rinnovare l’Assemblea di Strasburgo: «Un voto in cui troppe forze di troppi Paesi vogliono la disarticolazione di ciò che è stato costruito finora».
[Paolo Lepri – Corriere della Sera]