L’“ora incerta” di Primo Levi
PARTIGIA
Dove siete, partigia di tutte le valli,
Tarzan, Riccio, Sparviero, Saetta, Ulisse?
Molti dormono in tombe decorose,
Quelli che restano hanno i capelli bianchi
E raccontano ai figli dei figli
Come, al tempo remoto delle certezze,
Hanno rotto l’assedio dei tedeschi
Là dove adesso sale la seggiovia.
Alcuni comprano e vendono terreni,
Altri rosicchiano la pensione dell’INPS
O si raggrinzano negli enti locali.
In piedi, vecchi: per noi non c’è congedo.
Ritroviamoci. Ritorniamo in montagna,
Lenti, ansanti, con le ginocchia legate,
Con molti inverni nel filo della schiena.
Il pendio del sentiero ci sarà duro,
Ci sarà duro il giaciglio, duro il pane.
Ci guarderemo senza riconoscerci.
Diffidenti l’uno dell’altro, queruli, ombrosi.
Come allora, staremo di sentinella
Perché nell’albo non ci sorprenda il nemico.
Quale nemico? Ognuno è nemico di ognuno,
Spaccato ognuno dalla sua propria frontiera,
La mano destra nemica della sinistra.
In piedi, vecchi, nemici di voi stessi:
La nostra guerra non è mai finita.
Primo Levi ci ha lasciato poche ma decisive poesie. Le possiamo leggere in Ad ora incerta, una raccolta uscita per Einaudi nel 1984 che, oltre a includere la precedente plaquette L’osteria di Brema (Scheiwiller, 1975), ha assorbito le poesie scritte successivamente, mantenendo sempre lo stesso emblematico titolo, che in tal modo ha finito per designare qualcosa di più di quanto avrebbe voluto dire la struttura del libro in cui le poesie si dispongono in semplice ordine cronologico. Vi è un’ora incerta in cui la poesia nasce, e sembra redimersi in una sua “liminalità” consapevole, e tuttavia urgente, affatto necessaria, rispetto alla narrativa. In tal senso, liminale a Se questo un uomo è la celebre Shemà, «Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case…», in cui echeggia forse un altro celebre incipit: «Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono…», ma che in verità intende ricollegarsi alle prime due parole (un’altra soglia testuale) di una sezione della Torah, una delle parti più importanti del servizio liturgico ebraico. Degno altresì di rilievo che sulle soglie di Ad ora incerta Primo Levi metta Crescenzago, un testo composto nel febbraio del 1943, prima cioè del 25 luglio, dell’armistizio, della fuga sulle montagne con l’intento di entrare nella resistenza, e quindi prima della cattura, dell’esperienza del lager. Un testo-soglia che non ha però alcun valore programmatico, e sembra solo suggerirci che, nell’attività del futuro narratore, esisteva già, come un seme gettato in un solco più profondo, lo sguardo del poeta capace di abbracciare la vita con dei versi nella cui compita forma metrica (sei sestine di endecasillabi ABABCC) si sente, a dispetto di quanto lasciasse presagire la guerra in corso, un gusto naif arguto e ingenuo, alquanto trasognato (e viene in mente l’esordio di Se questo è un uomo del 1958: «Avevo ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza, e una decisa propensione, favorita dal regime di segregazione a cui da quattro anni le leggi razziali mi avevano ridotto, a vivere in un mio mondo scarsamente reale…»). Significativo, infine, che osservando la cronologia della scarna produzione poetica di Primo Levi si noti un deciso picco proprio a ridosso del 1946, anno in cui prende forma Se questo è un uomo, e come un ruscello carsico che a lungo si è diramato nelle opere narrative (se è vero che la poesia non consiste solo nell’andare a capo) riaffiora, torna alla luce a partire dal 1978, prima di prosciugarsi qualche mese prima della morte, nel 1987. Ad ora incerta non pretende però di essere una raccolta-rivelazione. La sua struttura è quella di un quaderno che mette in fila le poesie secondo la data di composizione, dando loro il segno evidente di non essere state organizzate in base a un progetto in itinere o concepito a posteriori, ma di essere disposte nel rispetto della misteriosa casualità dei vers donnés di cui parlava Valéry (così Primo Levi fissa l’immagine in Un mestiere: «Non hai che da aspettare, con la biro pronta: / I versi ti ronzano intorno, come farfalle ubriache; / Una viene alla fiamma e tu l’acchiappi»).
Dunque, se la poesia visita il poeta «ad ora incerta» (si veda a proposito anche la storia di Pasquale, alter ego di Primo, nel racconto de La fuggitiva, del 1979, incluso in Lilìt e altri racconti, 1982), non parrà strano che, a distanza di tanti anni, nel 1981, Primo Levi torni sul tema della Resistenza in Partigia, poesia che ha richiamato l’attenzione di diversi studiosi, e aperto la strada a qualche nuova ipotesi, non perché finalmente faccia luce su un tragico episodio della breve esperienza resistenziale di Primo Levi (per cui varrà la pena leggere Partigia. Una storia della resistenza, 2013, di Sergio Luzzato, dedicata all’esecuzione di due partigiani, da parte dei commilitoni della stessa banda, in Val d’Aosta, di cui faceva parte anche Levi), ma perché potrebbe gettare, retrospettivamente, nuova luce sul silenzio dello scrittore, che pare non abbia fornito mai una sua versione, dando talvolta l’impressione di trovarsi come davanti a un buco nero della memoria. Eppure il pensiero a quel passaggio confuso e inconcluso fra l’armistizio e l’arresto, donde scaturì la deportazione (basti rimandare, in questa sede, all’intervento di Giovanni Tesio, Levi partigiano, in Primo Levi. Ancora qualcosa da dire, Interlinea, Novara 2018), che segna il giovane Levi all’uscita dal limbo in cui lo avevano relegato le leggi razziali, con l’urgenza di fare qualcosa (combattere, risalire le valli, cercare delle armi ecc., insomma confrontarsi con il “nemico”, scontrandosi con la crudele assurdità della guerra: una poesia che ne somma le dinamiche incomprensibili è Il superstite) – ebbene, quel pensiero non lasciò mai Levi, ove non si trascuri una poesia del 1952, Epigrafe, dedicata a un «Micca partigiano», «spento dai suoi compagni per sua non lieve colpa», anzi insorge nel 1981, allorché lo scrittore sente il bisogno di tornarvi con una poesia esplicitamente dedicata alla Resistenza, Partigia, lanciando un’esortazione finale agli anziani e stanchi e ormai disillusi protagonisti di quella splendida stagione a risalire le montagne per riprendere la lotta. Già, ma contro quale «nemico»? Là dove ci aspetteremmo nobili esecrazioni contro la politica di quegli anni ancora arroventati dal terrorismo (si andavano allora formando i primi governi di centro-sinistra a guida socialista), ci troviamo di fronte a un invito a riflettere su se stessi: forse i nemici siamo noi, e non solo per il fatto di stare gli uni contro gli altri, ma addirittura perché in dissidio interiore con noi stessi. Forse è un’allusione dolorosa alla difficile convivenza fra il ricordo della parte migliore di sé, spesa per la conquista della libertà e l’affermazione dei valori democratici contro il nazifascismo, e la sempre più precisa convinzione di un complessivo fallimento dei progetti auspicati, di una disillusione irreversibile delle premesse a lungo sbandierate. E se l’idea che tale scissione, per cui «Ognuno è nemico di ognuno, / Spaccato ognuno dalla sua propria frontiera» (parole molto simili si leggono all’inizio del capitolo La zona grigia, ne I sommersi e i salvati: «In mondo in cui ci si sentiva precipitati era sì terribile, ma anche indecifrabile: non era conforme ad alcun modello, il nemico era intorno ma anche dento, il “noi” perdeva i suoi confini, i contendenti non erano due, non si distingueva una frontiera ma molte e confuse, forse innumerevoli, una fra ciascuno e ciascuno»), si annidasse già alle origini della lotta, sia anche all’origine di quella spietata decisione di punire con la morte due partigiani che si erano macchiati di qualche «colpa non lieve», in seguito riabilitati come martiri del fascismo dalla macchina celebrativa della Resistenza che la politica (ma non la letteratura, che da Cassola a Fenoglio, era riuscita invece a sfumare le posizioni evitando il rischio di radicalizzazioni) mise in piedi? Quanto può ritenersi “grave”, in termini giuridici, una colpa da sollecitare la condanna a morte? Quanto la guerra, per qualunque buona ragione venga combattuta, può autorizzare la sospensione di ogni pietà umana?
Partigia di Levi si chiude con una constatazione inconfutabile («La guerra non è mai finita», un motivo che torna in altri passi: così, tornando a I sommersi e i salvati, «…non si vede dimenticare che questa è una guerra senza fine») che sembra sigillare il dubbio sulla possibilità di comprendere quella «diffidenza» che, già intrinseca alla nostra natura interiore, si traduce in una frattura di cui Levi stesso si sentiva portatore sano (lui, resistente ma inadeguato a combattere, deportato ma sopravvissuto, ingegnere chimico ma scrittore…). Basterà a superarla una poesia nata ad ora incerta? Parrà singolare che il ricordo della terribile deportazione nel lager abbia trovato diversi modi per giungere al resoconto della memoria, mentre un episodio brutto, per quanto marginale nel grande epico affresco di un’impresa straordinaria, finisca per sbiadire. Non varrà la pena, allora, impegnarsi non in un suo superamento ma in un “oltrepassamento” che ponga fine alle divisioni e agli individualismi, in nome di una ritrovata solidarietà contro quella diffidenza, che si nutre di silenzi, fomenta l’indifferenza, forse perché il nemico non è solo fuori, ma anche dentro di noi?