Mercè Rodoreda, Aloma, ed. La Nuova Frontiera 2011, pag. 150, € 15,00 Traduzione dal Catalano di Giuseppe Tavani
Datato dall’autrice: Barcellona aprile 1936; rivisto a Ginevra, l’anno 1968, Aloma è tra i primi romanzi della vasta produzione di Mercé Rodoreda (Barcellona 1908- 1983), “la scrittrice più letta e tradotta della letteratura catalana, paragonata per lo stile e l’efficacia descrittiva a Virginia Wolf”. Gradita scoperta sugli scaffali di una buona libreria.
Conosciamo questa giovane donna, Aloma, in casa con suo fratello Joan, sua cognata Anna ed il piccolo Dani, il nipotino, attraverso lo sguardo di un narratore esterno che la segue in ogni suo passo, in ogni pensiero, emozione e trasalimento.
La troviamo in una casa modesta della periferia di Barcellona che porta ancora qualche segno di un passato migliore. Poche cose essenziali per vivere: una tendina da acquistare per la finestra è un lusso ed un evento, un libro che Aloma compra per sé deve essere tenuto nascosto tra le pieghe del vestito per evitare l’accusa di sprecare i soldi. Non può dilungarsi a leggere la sera in camera, per contenere i consumi.
Il passato emerge lentamente dalle pagine, cenni qua e là che portano alla ribalta una tragedia familiare. Lei è schiva, riservata, sensibilissima. E dignitosa. Fondamentalmente sola, poco compresa. Del resto non ci sono grandi confronti con gli altri componenti della famiglia. E’ legata alle sue piante come se fossero parte della famiglia, come è legata profondamente al nipotino.
Aloma afferma di odiare l’amore, ma forse ne ha solo paura, infatti scrive lettere ad un fidanzato immaginario perché ha bisogno d’amore. Come tutti noi: “Si strinse il petto tra le braccia e appoggiò la testa allo spigolo della parete. Sarebbe rimasta lì a lungo se avesse avuto a fianco qualcuno che le baciasse il viso, le mani, il dito che si era tegliata qualche giorno prima e che le faceva ancora male. Sentiva oscuramente la poesia povera della sua casa, della sua strada, di quelle stelle piccole che andavano spuntando”.
Poi una passione incontenibile la travolge, anche se la relazione ha dei contorni poco definiti: si tratta del fratello di Anna arrivato dall’Argentina, per ragioni che lei non conosce e non chiede, appagata di averlo vicino, temendo che conoscere significhi soffrire. Vive intensamente e di nascosto la sua passione e ne subisce le conseguenze pesanti.
Un nuovo lutto segna la sua vita, è la scomparsa del nipotino, mentre la gestione scapestrata della economia di famiglia da parte del fratello, uomo di poco amore per i suoi e attratto da avventure extraconiugali, la costringe ad un ulteriore strappo, quello dalla sua casa – impossibile qui non pensare ai Malavoglia- ma soprattutto dal suo giardino. Comunque Aloma sa ancora proiettarsi nel futuro, senza illusioni, consapevole di ogni tipo di ostacolo, ma forte della propria capacità di donarsi. I vuoti e le assenze che l’hanno segnata non le impediscono di fare ancora scelte coraggiose per la vita.
La narrazione del quotidiano di questa giovane donna acquista qualcosa di magico, il mondo visto dagli occhi di Aloma si carica di attesa e di meraviglia, perché è un’anima pura, una persona autentica. Fondamentalmente carica di pathos e di malinconia, perché troppo presto e troppo forte ha sperimentato la sofferenza.