21 Novembre 2024
Poetry

Il viaggio è finito. La poesia di Biagio Marin

Suriso d’oro calmo ha la to boca
comò i vesperi siti de fevraro,
quando ’l profumo de le viole a cioca
te palesa el stelâsse d’un violaro.

Cô lo vego me incanto e vardo sito
quel ciaror, quel riposo che me queta,
e in tel gno cuor te digo benedeta,
e in quel to paradiso svolo drito.

Dute le robe in giro xe beate
de quela boca che se s-ciude lenta;
la boca nova l’ha l’odor de menta
e i lavri moli, el bon savor del late.

to: tuo – siti: silenziosi – violaro: pianta di violaciocca. – cô lo vego: quando lo vedo – in tel gno cuor: nel mio cuore – te digo: ti digo – xe beate: sono beate – i lavri: le labbra.

*

El to nome xe sorso d’aqua ciara,
no ocore dilo, megio ’vêlo in boca,
co’ quel profumo fresco d’albicocca
che fa la vita nostra meno amara.

Megio tignì la bela osela
drento ’l cuor rinciusa,
sentila là a fa la fusa
e sbâte l’ale contro la portela.

Quel liquido to nome sensa franze
no vogio che nissun lo diga,
lo dise apena, co’ fatiga,
el mar cô sora i dossi ’l pianze.

dilo: dirlo – megio: meglio – ’velo: averlo – tignì: tenere – osela: uccello (femm.) – franze: frange – no vogio: non voglio – diga: dica – co’ fadiga: con fatica – cô: quando – dossi: banchi di sabbia affioranti sul mare

Credo sia intento di certa poesia del Novecento – la più appartata e solitaria, che si infratta negli angoli più umili della provincia italiana – quello di prendere linfa dall’humus della terra, intesa principalmente come “memoria” che ha nutrito il suo autore, modellandone l’immaginario poetico, senza tradursi in una raffinata ma letteraria strategia scenografica. In tal senso va la poesia di Biagio Marin, nato a Grado nel 1891, e ivi morto nel 1985, nel quale alligna il sentimento di un manque appena colmato entro un’area di viva e autentica esperienza esistenziale. Se vogliamo che la poesia di Marin parta da Grado, questo luogo si offre come un “porto” alla riflessione sul destino non solo del suo poeta, ma di ogni uomo, in quanto città-isola ferma, sull’atlante di un secolo arroventato, in un angolo della memoria indifeso e, nello stesso tempo, inaccessibile a ogni evento che possa minacciarne l’esistenza.

A immagine di questa città-isola, anche la poesia di Marin pare ferma, e ferme compaiono barche e velieri, alloggiati a riva o nei porti, in sosta in qualche cantiere, in attesa di rottamazione, o spiaggiate: barche che arrivano, magari, e non ripartono; in dismissione, non in navigazione; barche che hanno già bruciato il loro tempo e si presentano nella loro disarmante inermità. Con la poesia di Marin, siamo davanti a un paesaggio di una semplicità dolce e straziante, nel quale chi lo canta tenta di fissare una visione del suo passaggio sulla terra, o addirittura addirittura di proiettarne il desiderio di eternità, all’insegna di un’«umiltà» preposta alla interiorizzazione di un sentimento aperto alla «zogia de la vita» (si ricordi, a proposito, la poesia Podé vive nel cuor). Le forme reali di questo paesaggio sono già trasfigurate negli elementari simboli onirici che parlano una grammatica poetica umile e austera, i quali fanno del microcosmo gradese un macrocosmo interiore, così come le forme metriche e ritmiche, che ne veicolano il messaggio, e la lingua favorevole a un’attenta selezione ‘petrarchesca’ (lo vide da subito Pasolini) del materiale linguistico dialettale, predispongono il lettore alla valorizzazione di ogni superficie e dettaglio del quadro.

Ne è un esempio molto interessante le due poesie di Marin scelte per l’occasione (dall’antologia La vita xe fiama e altri versi (1978-1981), a cura di C. Magris, prefazione di P. P. Pasolini, Einaudi, Torino 1982), che innestano i temi della poesia d’amore del “sorriso” e del “nome”, in chiave di sineddoche della persona amata, sullo sviluppo di una trama ironico-mélo percorsa da metafore ispirate a un naturalismo estetizzante che ci riporta alle radici della lirica europea (dai trovatori al Petrarca), e tessute in armoniose quartine, qua e là screziate da enjambements in posizione debole, in cui le inquietudini del modello trecentesco (come non pensare alla canzone famosa del poeta di Laura nell’incipit «El to nome xe sorso d’aqua ciara»?) si risolvono in un vivace contrappunto di deittici disseminati fra aggettivi possessivi e aggettivi dimostrativi, fra aggettivi di basso rendimento connotativo (‘bello’, ‘chiaro’, ‘beato’, ‘fresco’ ecc.) e verbi statici (‘avere’, ‘essere’, ‘tenere’, ‘sentire’, ‘volere’, ‘quietare’, ecc., a petto di un «svolo drito»). In pochi versi sentiamo dunque riaffiorare, dall’ampia rete di un secolo che rifiuta ogni reductio ad unum, quel Novecento di Giotti, Saba, Penna, senza dimenticare Scataglini, che rovescia di segno il puntiglioso esercizio arcadico che tracima dalla tradizione nella disseccata e scabra leggerezza di un fine e svagato acquerello.

La malinconia di Marin avviene nel segno di quella consapevolezza che, se la poesia è un viaggio, questo viaggio è finito, anzi, che ogni viaggio, compreso quello della poesia, se non è finito, ammesso che sia mai cominciato, finirà presto. Dove? Nel porto di un’isola (viene da rispondere sfogliando il poeta di Grado): metafora di quella “isolanità” che condiziona anche il nostro pianeta, come una briciola sospesa negli abissi dell’universo.

Non parrà ozioso domandarsi in che modo potevano suonare queste due poesie in italiano. La scelta del dialetto, in Marin, è necessaria e felice, ma non bisogna darla per scontata, come potrebbe apparire oggi: anzi, fu una scelta coraggiosa, fatta e forse perpetrata in barba al sistema, se non addirittura contro, dal momento che poteva comportare l’emarginazione e il confino (in quella riserva che ancora oggi viene chiamata “poesia dialettale), insomma l’“isolamento”. Non apparirà scontata neanche se la confrontiamo con quella altrettanto audace di Virgilio Giotti, il quale, scegliendo il triestino, in vece della lingua italiana, poteva tuttavia godere di un pubblico cittadino ampio ed eterogeneo, oltre che consapevole, grazie a una profonda educazione letteraria, del valore intrinseco che il dialetto triestino poteva avere nel nuovo assetto multiregionale della nazione; o con l’elezione del napoletano di Salvatore Di Giacomo, per certi versi obbligata, ove si consideri l’aura riconosciuta al dialetto partenopeo, adoperato da secoli nella canzone, davanti a un pubblico internazionale.

Vero, d’altronde, che, come il napoletano di Di Giacomo o il triestino di Giotti, così il gradese di Marin si nutre dell’humus di cui si diceva prima: la sua chiarezza (tale da non aver quasi bisogno di vocabolario), offerta in serie di quartine, con rime di elegante asciuttezza (tornano in mente le rime in -are di Saba), riflette quella visione altrettanta chiara che il poeta intende raggiungere con la sua “identità” di scrittore per un’ideale anche se linguisticamente circoscritta comunità/umanità. In questa lingua la poesia si nutre dell’“origine” non per soddisfare un vano senso campanilistico o isolazionistico, bensì per rispondere all’inquietudine di un Secolo che dice e predice la sua modernità, e nello stesso tempo (può fare diversamente?) la contraddice.

In che altro modo poteva parlare questa immagine dell’Isola di Grado, e della sua cornice socio-economica, che nel giro di pochi decenni assiste alla fine della sua identità culturale? Nella poesia di Marin l’Isola di Grado appare come un’altra barca ferma al largo dell’Istria, abbandonata nei pressi di un molo – quello della storia? – da cui non è più possibile salpare. Non è più possibile forse perché chi guarda all’orizzonte non riesce più a distinguere l’antica rotta fra le altre (come dimostra la storia del Novecento) tragicamente confuse e incerte, o forse perché chi conserva ancora fresca la lezione di “umiltà” di un’isola che non ha mai voluto entrare nell’agone della storia, sa che che non basta invocare la pietà di una luce che scende dall’alto per illuminare o almeno diradare le tenebre di una notte appena cominciata.

Salvatore Ritrovato

Salvatore Ritrovato (1967), poeta, critico, docente di letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università di Urbino. Fra le sue ultime pubblicazioni, la nuova edizione di La differenza della poesia (Puntoacapo, 2017), e la breve raccolta di versi, Cercando l’isola (Fiorina edizioni, 2017).