Pedro Salinas e la poesia del “sì”
Todo dice que sí.
Sí del cielo, lo azul,
y sí, lo azul del mar;
mares, cielos, azules
con espumas y brisas,
júbilos monosílabos
repiten sin parar.
Un sí contesta sí
a otro sí. Grandes diálogos
repetidos se oyen
por encima del mar
de mundo a mundo: sí.
Se leen por el aire
largos síes, relámpagos
de plumas de cigüeña,
tan de nieve, que caen,
copo a copo, cubriendo
la tierra de un enorme,
blanco sí. Es el gran día.
Podemos acercarnos
hoy a lo que no habla:
a la peña, al amor,
al hueso tras la frente:
son esclavos del sí.
Es la sola palabra
que hoy les concede el mundo.
Alma, pronto, a pedir,
a aprovechar la máxima
locura momentánea,
a pedir esas cosas
imposibles, pedidas,
calladas, tantas veces,
tanto tiempo, y que hoy
pediremos a gritos.
Seguros por un día
—hoy, nada más que hoy—
de que los «no» eran falsos,
apariencias, retrasos,
cortezas inocentes.
Y que estaba detrás,
despacio, madurándose,
al compás de este ansia
que lo pedía en vano,
la gran delicia: el sí.
Tutto dice di sí.
Sí del cielo, l’azzurro,
e sí, l’azzurro, del mare,
mari, cieli, azzurri
con spume e con brezze,
giubili monosillabi
senza sosta ripetono.
Un sí risponde sí
a un altro sí. Grandi dialoghi
ripetuti si odono
al di sopra del mare
da un mondo all’altro: sí.
Si leggono nell’aria
lunghi sí, lampi
di piume di cicogna,
tanto candidi che cadono,
fiocco a fiocco, coprendo
la terra di un enorme,
bianco sí. È il gran giorno.
Possiamo avvicinarci oggi
a tutto ciò che tace:
alla roccia, all’amore,
all’osso dietro la fronte:
sono schiavi del sí.
È la sola parola
che oggi il mondo loro concede.
Affrettati, anima, a richiedere,
a valerti della massima
follia momentanea,
a chiedere quelle cose
impossibili, richieste,
taciute, tante volte,
tanto tempo, e che oggi
chiederanno gridando.
Sicuri per un giorno
– oggi, oggi solamente –
che i “no” erano falsi,
apparenze, ritardi,
involucri innocenti.
E che là dietro c’era,
a maturarsi lento,
al ritmo di quest’ansia
che lo chiedeva invano,
la gran delizia: il sí.
*
Di Pedro Salinas (1891-1951), appartenente alla “generazione del 27” (secondo la definizione di Dámaso Alonso), raccolta intorno alla rivista la «Gaceta literaria», che vide fra gli altri collaboratori Jorge Guillén, Rafael Alberti, Federico García Lorca, Luis Cernuda, Vicente Aleixandre, si ricorderà soprattutto La voz a ti debida (‘La voce a te dovuta’), un poemetto-canzoniere d’amore che uscì nel 1933 (citiamo dall’edizione einaudiana del 1979, con l’ottima introduzione e traduzione di Emma Scoles), in quella vigilia ancora ricca di fermenti e di promesse per la Spagna, prima del tenebroso avvento del Caudillo, che furono i primi anni Trenta. Sono gli anni in cui vedono la luce libri come El hombre deshabitado, auto sacramental, del 1931, di Rafael Alberti, e prendono forma libri come El poeta en Nueva York e il Diván del Tamarit, scritti da Federico García Lorca, fra il 1929 e il 1934, entrambi pubblicati postumi nel 1940.
Restringere, tuttavia, la poesia di Salinas intorno al solo tema dell’amore sarebbe forzato. Se è vero che La voz a ti debida riprende il nodo di quella dialettica esistenziale fra amore e “sentimento del tempo” (allusione non casuale ad Ungaretti, che proprio nel 1933 pubblicava Sentimento del tempo), già individuato nella raccolta d’esordio, Presagios, del 1923, e la prosegue in direzione di Razón de amor, del 1936, per raggiungere la piena maturità dell’abbandono sentimentale nelle ultime raccolte (El contemplado, 1946; Todo más claro y otros poemas, 1949; Confianza, 1955); è anche vero che l’intensa visione di un amore trasfigurato in termini (com’è stato spesso rilevato) platonici fra il poeta e la sua donna (midons, angelo) non si scompagna da una nuova più inquieta attenzione alla sua fenomenologia fisica. L’intento di Salinas pare, infatti, quello di evitare le prevedibili secche della quête metafisica, e proiettare il rapporto su orizzonti più umani, senza deragliare dall’alveo della tradizione, anzi riprendendo alcuni passaggi della poesia barocca e romantica, però filtrati e corretti alla luce di quell’inquietudine novecentesca che già nei primi decenni del secolo (e la Generazione del 27 ne era una prova) cercava di superare le aporie del “modernismo” senza scivolare nell’anti-modernismo.
A emblema di questa nuova condizione che il poeta instaura con la visione post-angelica della donna (La voz a ti debida esce prima che Montale sviluppasse, all’indomani dell’incontro con Irma Brandeis, la figura di Clizia su cui s’incardinerà la sua poesia successiva), potremmo prendere versi di Salinas come questi: «Saliste de tu ausencia, / y aún no te veo y no sé dónde estás» (‘Uscisti dall’assenza, / e ancora non ti vedo e non so dove sei’, XXXII). Finalmente la donna esce dalla sua “assenza” e diventa presente? Non ci affrettiamo a rispondere: quanti versi di Salinas, gremiti da carezze baci e abbracci (cui si lega un elementare lessico del corpo: labbra, fronte, guance, pelle, mani, braccia, passi…) potremmo spuntare ai fini di una risposta, è inutile dirlo. E sí che, proprio in quegli anni, Umberto Saba osservava con un po’ di malizia, in una sua Scorciatoia, che non era facile trovare nel più grande canzoniere d’amore di tutti i tempi, cioè il Canzoniere di Petrarca, un solo bacio… Forse un amore disincarnato vale più di uno che non riesce a dissetarsi alla fonte della sua fisicità? In cosa consiste il “vero amore”: nel suo inappagabile desiderio o nella sua interiore purezza?
Ben aldiquà di Neruda, e senz’altro memore di poeti più appartati come Bécquer e Machado, ove non ci si dimentichi di Garcilaso de la Vega (da cui Salinas trae ispirazione per il titolo: «…mas con la lengua muerta y fría en la boca / pienso mover la voz a ti debida») e di Jorge Manrique (che già nel Quattrocento aveva avviato la lirica spagnola, prima del bagno petrarchista, all’impiego concettoso di versi brevi in cui l’esperienza sentimentale si frammenta drammaticamente in un dettato incalzante), Salinas da un lato sembra ammiccare a certi passaggi ineludibili della poesia classica (dove i baci non mancavano: «da mi basia mille, deinde centum, / dein mille altera, dein secunda centum…»), riconnotati da una riflessione più tormentata e problematica («Vamos, / a fuerza de besar, / inventando las ruinas / del mundo…», ‘A forza di baciare stiamo / inventando le rovine / del mondo…’, XVII; «Besar rostros en vez / de máscaras amadas…», ‘Baciare volti invece / di maschere amate’, XX), dall’altro libera la sua inquietudine impregnando i suoi versi in quell’alta concezione dell’amore elaborata dalla poesia del Seicento – da Góngora a Donne – allorché egli afferma, con il vivo gusto di un’architettura concettosa la quale mostra la paradossalità di un sentimento che si vuole nello stesso tempo spirituale e fisico: «Y estoy abrazado a ti / sin mirar y sin tocarte. / No vaya a ser que descubra / con preguntas, con caricias, / esa soledad inmensa / de quererte sólo yo» (‘E sto abbracciato a te / senza guardare e senza toccarti. / Non debba mai scoprire / con domande, con carezze, / quella solitudine immensa / d’amarti solo io’, XXXIX).
Insomma, non c’è forma di ‘assenza’, o comunque di ‘latenza’, che possa dissolvere la figura femminile agli occhi di chi non la desidera e invoca solo come musa, ma anche come donna. Quanto, tuttavia, questa donna resti disancorata dai condizionamenti di quei critici anni Trenta (forse le “dive” cinematografiche, le modelle che cominciavano allora ad affacciarsi sui cartelloni pubblicitari, non hanno contribuito a tradurre l’immaginario angelico delle donne della poesia in termini meno astratti, ad assegnare loro una «forma corporal»?), non è la sede qui per appurarlo: ci basti aver messo in luce la sostanziale novità di Salinas, prima di godersi la lettura della poesia sopra riportata. Importante, per riassumere, è non ripiegare pigramente su una prospettiva monotematica fondata sull’amore, qualora non s’intenda per amore un’apertura integrale al mondo fenomenico, soggetto alle leggi della natura, alla catena dell’essere di cui proprio l’amore – come aveva dimostrato secoli prima Leone Ebreo, raccogliendo le sollecitazione della riflessione neoplatonica, nei suoi Dialoghi d’amore – non è che la sempre instabile e altresí necessaria linfa vitale che riconduce la donna dall’altezza iperuranica, in cui la tradizione europea l’aveva collocata, ai bassopiani della vita quotidiana («Tú no puedes quererme: / estás alta, ¡qué arriba! / Y para consolarme / me envías, sombras, copias, / retratos, simulacros […] Yo vivo / de sombras, entre sombras / de carne tibia, bella, / con tu ojos, tu cuerpo, / tus besos, sí, con todo / lo tuyo menos tú…», ‘No, tu non puoi amarmi: / stai in alto, cosí in alto! / E per consolarmi / mi mandi ombre, copie, / ritratti, simulacri […] Io vivo / di ombre, fra ombre / di carne tiepida, tersa, / con i tuoi occhi, il tuo corpo, / i tuoi baci, sí, con tutto / ciò ch’è tuo, meno te…’, XLIX).
Ora, in Salinas, con lo slancio che illumina di un’impalpabile tensione mistica la prospettiva “inclusiva” – e non esclusiva – della sua parola, l’amore contrassegna un dispositivo di senso che trasvaluta il gesto fisico (a cominciare dal bacio) alle soglie di un traguardo più alto: quello della coscienza temporale del soggetto il quale, nel tentativo di comprendere la sua esperienza amorosa, riannoda la visione agostiniano-petrarchesca del tempo al concetto di “durata” di Bergson («Pero ahora, / ¡qué desterrado, qué ausente / es estar donde uno está! / Espero, pasan los trenes, / los azares, las miradas. / Me llevarían adonde / nunca he estado. Pero yo / no quiero los cielos nuevos. / Yo quiero estar donde estuve. / Contigo volver […] Porque sé que adonde estuve / sólo / se va contigo, por ti», ‘Ma ora, / quale esilio, che assenza / essere dove si è! / Aspetto, passano i treni, / il caso, gli sguardi. / Mi condurrebbero forse / dove mai sono stato. / Ma io non voglio i cieli nuovi. / Voglio stare dove già stato. / Con te, tornare […] Perché so che là dove sono stato / si giunge solo / con te, attraverso di te’, LIX); senza trascurare il fatto che, di là da questo traguardo, il soggetto intuisce un orizzonte più ampio in grado di abbracciare il mondo, con un «sí» alla vita, alto, caldo, passionale e paradossale, scandito in un ragionata rassegna di adynata, come possiamo leggere nella poesia sopra riportata. In tal senso, la quête della donna-midons-angelo si dilata, dunque, e nello stesso tempo si precisa nella rappresentazione di una figura-guida fondamentale per quell’esplorazione dell’universo, colta dal poeta in La voz a ti debida in piena fase di “incanto”: la sua “voce”, che risponde “sí” a “sí”, ne coglie e trascrive l’eco, lo porta nel cuore della creazione, senza distoglierlo dal desiderio della sua fisicità, di quei baci, di quella bocca in cui passa la parola e il respiro – il “verbo” e il “soffio” – della nostra fragilità.