Pompeo Bettini: destino di un poeta “minore”
È così che contemplo questo bel ciel d’estate.
Non son triste, ma volli punire il mio desir:
colla mano sul cuore, colle ciglia calate
ho pensato al futuro, ho pensato al morir.
Io non tento di piangere, so che il raggio del sole
scioglie nelle mie lagrime i suoi sette color;
so che il sol ride sempre, anche se il destin vuole
ch’io presto chiuda gli occhi che vi bevon l’amor.
So che la terra ignora cosa le nasce in grembo
e protegge le vite che senza duol creò;
essa tien le radici delle piante se il nembo
scoppia, e ancor vi si attacca se il nembo le strappò.
So che nei mari azzurri, nella campagna verde,
nel biancheggiare stanco delle grandi città,
l’opera dei mortali è un rumor che si perde
e che poco ne giunge alla future età.
Poiché so di morire la mia scienza è compita:
nulla è per me il futuro e nulla quel che fu.
Quale speranza debbo domandare alla vita?
Quale mortal bellezza posso amare qua giù?
Chi non conoscesse l’autore di questa poesia direbbe immediatamente che siamo davanti a qualcuno che sfoga una sua profonda disillusione, e la irriga di amarezza nei confronti del «futuro» (parola chiave del testo che si sbriciola a poco a poco in una seria di negazioni, sigillandosi in rime tronche finali, fino alla più lugubre “fu”/“giù”). Un poeta che non punta all’originalità, dal momento che si serve di immagini topiche, ampiamente collaudate, per illustrare il contrasto fra un paesaggio in cui l’idillio (il bel ciel d’estate, il sole che ride, i mari azzurri, le campagne verdi, ecc.) a un certo punto si oscura (diventando teatro di una lotta fra il «nembo» e la terra che trattiene i suoi abitanti alle «radici») e la sua immedicabile malinconia (la mano sul cuore, le ciglia calate, le lagrime, gli occhi che si chiudono ecc.), condita da riflessioni sulla finitezza e incompiutezza dei nostri progetti di fronte al trascorrere inesorabile del tempo (un «rumor che si perde…»). Effetti di pathos che riescono in qualche modo a raggiungerci, proprio quando – sulla soglia di un congedo nichilista («nulla è per me il futuro e nulla quel che fu») – l’autore lascia aperto uno spiraglio nell’interrogazione retorica finale: è possibile domandare una «speranza» alla vita e amare una «mortal bellezza» sulla terra? La tentazione di rispondere no è fugata dal dubbio: nella coscienza della disillusione, non scompaiono parole come speranza e bellezza o forse è ancora possibile amare, scrivere una poesia? Occorre capire di che disillusione si tratta.
Saranno in pochi a sapere che l’autore di questa poesia (che traggo dall’antologia curata da Giuseppe Iannaccone, Petrolio e assenzio. La ribellione in versi (1870-1900), Salerno Editrice, Roma, 2009) è stato Pompeo Bettini, nato a Verona nel 1862 e morto a Milano nel 1896, poeta, traduttore, socialista, e ancora meno forse a ricordare che fu il primo traduttore italiano del Manifesto del partito comunista, che uscì nei numeri 17-18, settembre 1892, di «Lotta di classe», proprio l’anno in cui veniva fondato il partito socialista italiano.
Di umili origini, Pompeo Bettini è avviato a studi tecnici, ma alla morte del padre deve interrompere la scuola e trovare lavoro. Si impiega come correttore di bozze presso Sonzogno, editore popolare tra i maggiori in Italia in quegli anni. Un mestiere di cui Bettini coglie l’importanza culturale e sociale per l’istruzione (e l’emancipazione) delle classi povere (solo pochi anni prima, era stata rivista la durata delle elementari dai quattro anni della riforma Casati, di cui solo il primo biennio obbligatorio, ai cinque anni della legge Coppino, con l’estensione dell’obbligo ai primi tre anni). A riprova del senso formativo e educativo che il giovane Bettini dava al suo modesto impiego, nel 1899 egli pubblica l’opuscolo Il viaggiatore poliglotto, vocabolario per la pronuncia dei principali nomi geografici, e nel 1891, presso la Tipografia degli operai di Milano, due manuali divulgativi: L’unità ortografica nelle tipografie italiane e Il correttore nella tipografia moderna.
Di famiglia repubblicana, Bettini conosce, dunque, e frequenta l’ambiente operaio e i circoli del partito dei lavoratori, stringendo amicizia con Filippo Turati, che lo avrà sempre in grande stima non solo come compagno di partito e come uomo, ma anche come poeta. Sono anni cruciali per l’Italietta umbertina, lanciata a conquistare rispettabilità internazionale con una serie di goffe e disgraziate imprese coloniali, e incapace di risolvere la fame delle classi impoverite da politiche economiche errate, e pertanto costrette a emigrare. L’interesse di Bettini per le questioni politiche e sociali non spegne però la fiamma della poesia che egli nutre sin da ragazzo, come provano un’ode In occasione dei funerali di S. M. Vittorio Emanuele in Roma, stampata nel 1878 a Milano, e una poesia dal titolo Il fanciullo delle grucce per un amico prematuramente scomparso. Nel 1887 pubblica un volumetto di versi, con l’amico Attilio Pusterla, dal titolo Versi ed acquerelli, e dal 1892, senza venire meno alla collaborazione a «Critica sociale» (fondata da Turati), e a Vita moderna», poi «Cronaca moderna», riviste apolitiche, di orientamento umanitario, sulle quali si affaccia con scritti letterari (versi, prose, traduzioni, interventi critici). Insieme con altri giovani scrittori (come Enrico Thovez, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, una giovanissima Deledda), Bettini partecipa attivamente a quel clima di rinnovamento culturale italiano che avrebbe portato, nei primi del Novecento, non senza qualche ambiguità e contraddizione, al superamento dei limiti espressivi di una poesia che aveva perduto, nel corso dei secoli, insieme alla chiarezza interiore, il rigore e la coerenza morale (così come giunse a rilevare, in anni ormai di smobilitazione della tradizione demagogico-estetizzante affermatasi fra l’ultimo Ottocento e il primo Novecento, il celebre pamphlet di Thovez, Il pastore, il gregge e la zampogna, del 1910).
Oltre alla strada della poesia, che segue senza ambizione di vanità, Bettini si cimenta nella narrativa, con il romanzo d’appendice La toga del diavolo, che esce nel 1890 presso Sonzogno, nella collana della Biblioteca Romantica Tascabile; e si mette anche alla prova del teatro, con la commedia pacifista I vincitori (1894), di atmosfera risorgimentale in quattro atti (poi tradotta in milanese da Ettore Albini, con il titolo La guèra, nel 1896, e prefato da Turati). Altre poesie usciranno nella raccolta postuma del 1897, su iniziativa della madre, presso un piccolo editore milanese, Brigola, con una tiratura di 400 copie che non raggiungeranno il pubblico sperato. Bettini morirà di meningite a soli 34 anni il 15 dicembre 1896, ricevendo il commosso ricordo, in «Critica sociale», di Filippo Turati. Meno di due anni dopo, fra il 6 e il 9 maggio del 1896, la così detta “protesta dello stomaco” finirà a Milano in un bagno di sangue, grazie ai cannoni di Bava Beccaris.
Scomparso dalla scena, caduto nell’oblio, Pompeo Bettini torna alla luce, decenni dopo, grazie alla generosa dedizione di Benedetto Croce che in piena seconda guerra mondiale riunisce i suoi versi in volume (Le poesie di Pompeo Bettini, Laterza, Bari 1942) e ne apprezza, di là dall’onesta chiarezza delle posizioni politiche (in fondo, si tratta di un poeta socialista, e il fascismo era nell’ultima fase di rivoltante sanguinario declino), la qualità della sua vena poetica, esile, sì, ma «genuina e necessaria», che lo pone come un antesignano del crepuscolarismo, e anzi ne fanno (come avrebbe rilevato Pietro Pancrazi) un piccolo ma interessante caso letterario. (Uno dei tanti casi, aggiungeremmo oggi.) A compimento di tale percorso, nel 1970 l’opera di Bettini, dopo essere stata accolta nei Poeti minori dell’Ottocento a cura di Luigi Baldacci, riceve una nuova edizione complessiva ad opera di Ferruccio Ulivi, col titolo di Poesie e prose, presso l’editore Cappelli di Bologna.
Come rimettere insieme i pezzi di un autore, che prima di professarsi poeta, ha deciso – e non è cosa comune – da che parte stare, e coerentemente con tale scelta cerca un pubblico nuovo? Forse nella sua poesia vi è la confessione piena di un uomo che scrive non per realizzare un sogno narcisistico inseguendo un movimento letterario o omologandosi a un modello (rimase comunque estraneo al fascino dannunziano, e lontano dai suoi seguaci, tra cui annoverava, esagerando un po’, anche Gian Pietro Lucini, poi arruolato, egli nolente, dai futuristi), ma per fare i conti con se stesso, con i propri limiti, siano quelli politico-ideologici, se pensiamo all’utopia socialista cui Bettini non venne mai meno, siano quelli tecnico-estetici, se pensiamo che egli non rinunciò a tentare la via della letteratura. In fondo Bettini, con i studi tecnici, correttore di bozze presso un editore popolare, di fede socialista, sembra incarnare una nuova età – più democratica, se vogliamo, ma anche più instabile e imprevedibile – della letteratura: la dura lotta contro l’analfabetismo comporta una sempre maggiore accessibilità al sistema letterario, con un progressivo e diversificato aumento della base dei lettori, all’interno di un sistema editoriale sempre più pervasivo e meno selettivo. Perciò scrivere in versi, nel momento in cui si connota come un momento di rivendicazione (e liberazione) della sfera del privato, è come se apparisse alla portata di tutti. Ma lo è davvero, e in che misura? Purché si abbia – si ha voglia di precisare, leggendo la poesia di Bettini – qualcosa da dire. Quel che conta è riuscire a tradurre una sensazione di stupore o di smacco nei termini di una lucida coscienza interiore del proprio destino (quand’anche fosse quello di un “minore”), e rendere tale traduzione in un brivido, in una scossa, illimpidendola per quanto possibile con un uso accorto ma non enfatico di figure retoriche quali l’anafora, per esempio; la quale, così come accade nella poesia di Bettini sopra citata, carambola dal “sono” al “volli” al “so” che echeggia fino alla fine del testo, di strofa in strofa, fra i settenari che si incalzano, raddoppiando, in una trama dinamica di accenti, lasciando il lettore sospeso di fronte a una richiesta di speranza e bellezza che la storia, stante la brevità dei nostri giorni, non può esaudire. E non conta l’esattezza o l’altezza della risposta – almeno in questo caso –, quanto l’aver posta la domanda con la consapevolezza di chi è disposto fare i conti con se stessi.