Les Murray, Un arcobaleno perfettamente normale, Adelphi 2004, pag. 544, € 24,00. Edizione con testo inglese a fronte a cura di Gaetano Prampolini
Un arcobaleno perfettamente normale offre una scelta delle poesie tratte da Collected Poems, di Les Murray, un poeta gigante in senso fisico e linguistico: Brodskij ha detto che “è semplicemente colui grazie al quale la lingua vive”, una lingua forte di suoni, di musicalità, di neologismi straordinari, di espressioni aborigene, di concreta aderenza alle cose, alle persone, alle situazioni, al paesaggio, fondamentalmente alla vita.
Riporta note dell’autore (Australia- Nabiac 1938- Taree 2019), quelle che lui stesso aveva apposto alla edizione di The Vernacular Republic Poems 1961-1983, e quelle frutto della corrispondenza tra autore e traduttore-curatore, che in un soggiorno di studio in Australia ha avuto anche la fortuna di incontrare Murray.
Figlio di una modesta famiglia di agricoltori della parte nord ovest dell’Australia, di religione presbiteriana, discendenti da emigranti scozzesi della metà dell’ottocento, Murray cresce a Bunya; ragazzo introverso, isolato, emarginato e deriso dai coetanei per la sua obesità, orfano presto di madre -che si sarebbe potuta salvare se ci fosse stato un ospedale vicino-, col padre che faticava su un piccolo podere nella speranza vana che diventasse di sua proprietà. Per questo vissuto “la paura del bisogno” è un elemento presente nei suoi versi e un giorno riuscirà finalmente a regalare al padre venti ettari di terra: “la corda della miseria certi la pizzicano per vezzo/o perché porti fortuna, secondo quel che sentono,/certi per ingannare, e certi per il suono che fa/ma certe volte è reale”.
Il contesto in cui è cresciuto conservava ancora la genuinità di tradizioni, di riti antichi, insieme al senso della comunità, era per lui la Beozia, quella che contrappone ad Atene, simbolo della cultura metropolitana, individualistica, razionalistica, una contrapposizione che rimane costante nella sua opera, identificandosi nel contrasto tra il bush, l’ambiente naturale ben noto, e Sidney: “Quando Sidney e il Bush s’incontrano ora,/ c’è antipatia/e la notte i quartieri di moda/fluttuano lontani sul mare”. Sidney l’ha conosciuta quando si è iscritto all’Università nel 1957 – che ha lasciato prima di conseguire la laurea- e rappresenta il progresso che ha cambiato relazioni umane e ambiente.
Ma ora le madri del bush solitario e silenzioso guardano lontano verso la città e anche il ragazzo “ripone la speranza/nel chiedermi delle città”.
La tradizione si fa nostalgia, come ne Il ciclo Buladelah-Taree di canti delle ferie: “Le stelle delle ferie fuori per tutto il cielo./La gente le guarda, uscendo da camper e campeggi;/ la gente guarda in su dai poderi, prima di fa ritorno; fissa la sua razione/annuale di stelle”. O assume toni epici quando si recuperano i racconti intorno al fuoco: “Così avanti negli anni, nei geli di allora/che irrigidivano lenzuola spettrali su filo indurito,/fumavano sopra i letti in veranda e bloccavano rubinetti, /famiglia e ospiti sedevano accanto al lago di carboni/abbacinanti, in quel canto della cucina separata/…e tutti raccontavano. Era una sorta di video parlato”.
Nei suoi versi la natura è potente in ogni manifestazione, con animali di ogni specie, piante, distese desertiche, acquitrini, su cui le ore del giorno e il volger delle stagioni lasciano luce e colori. Si fa emozione e magia: “Dentro la foresta lampade lungo sentieri/fino a uno stellato letto di torrente; oltre, campagna mai recintata,/billabong colmi d’acqua, tutti assediati/ da croste sonore d’animali e uccelli/tra i quali sempre saltava qualcosa./E ad accendersi, appesa lassù, ogni volta che/il buio la trovava, la luce diurna della luna”:
C’è una fusione costante e perfetta uomo – ambiente, quasi un naufragare leopardiano, e animali e piante hanno voce, un linguaggio che è talvolta come un lallare infantile con cui esprimono la loro vita ed anche il loro dolore, con un realismo crudo, come quello della mucca al macello: “Me nel recinto piscioso. Un bastone esce dall’umano/e schiocca come la frusta. Me trema e cade/con il terribile, il sangue di me, che esce dietro un orecchio”. C’è un continuum tra mondo animale, naturale e umano.
Murray ha cominciato a pubblicare nel 1965, sono venti i volumi di poesia e dieci quelli di prose saggistiche, da The Ilex Tree a Collected Poems del 2006. La produzione è come un romanzo in versi della sua vita, senza interruzioni. La produzione poetica e gli eventi della sua vita sono strettamente intrecciati, per questo Murray si pone sempre dalla parte degli ultimi, del rispetto e del riscatto: “Il nostro avere vita in abbondanza, Robert,/ è sospetto dove fa caldo e gli affamati ci guatano”. Ritiene indiscutibile l’ equanimità sociale: “Per quanto vario nel cuocere la carne, nel culto, nel divorzio/l’ordine umano ha equanimità/al suo cuore”. Denuncia ogni forma di violenza, consapevole che sia solo frutto dell’ignoranza: “I sacrifici umani ora provengono sempre,/per difetto di capacità, da menti/che non saprebbero inventare/le galassie-mappa della pittura a puntini”. Si fa portavoce della Australia del popolo, quella che lui definisce repubblica vernacolare, celebrando i tratti distintivi dell’Australia, in una unità tra cultura aborigena, metropolitana e agreste-pastorale
L’uomo che piange in mezzo alla strada -è una poesia del 1969 dal titolo Un arcobaleno perfettamente normale– senza nascondersi, con dignità, senza chiedere aiuto a nessuno, che “grida non parole, ma pena, non messaggi, ma dolore/duro come la terra”, e quando smette si si asciuga il viso e se ne va in mezzo alla gente con la stessa dignità, riassume in sé tutta la sofferenza del mondo..
Se per Murray “una poesia è un aldilà in terra”, tuttavia con l’ironia sottile di cui è capace ammette anche che “la poesia la leggono gli amanti della poesia/e l’ascoltano i pochi altri che quei trascinano in un caffè/ o alla biblioteca di quartiere”.
Ma se Lui -che è in alto- “ha fatto l’impossibile/per mostrarci che c’è. Per chiedercelo. Pare che abbiamo da essere noi/il poema/e vivere l’impossibile. Così abbiamo fatto ogni volta, con grida del più vario tono”.