Il “Goal” di Umberto Saba
Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non veder l’amara luce.
Il compagno in ginocchio che l’induce,
con parole e con mano, a sollevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.
La folla – unita ebrezza – par trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questo belli,
a quanti l’odio consuma e l’amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.
Presso la rete inviolata il portiere
– l’altro – è rimasto; ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasta sola.
La sua gioia si fa una capriola,
si fa baci che manda di lontano.
Della festa – egli dice – anch’io son parte.
«Saba ed il gioco del calcio si incontrarono per opera del “caso”», così leggiamo in un passaggio di Storia e cronistoria del Canzoniere, il libro in cui Saba, narrandosi in terza persona, racconta la storia della sua poesia. 15 ottobre 1933, domenica, il poeta riceve da un amico più giovane un biglietto omaggio per una partita importante, Triestina-Inter (detta Ambrosiana, secondo le norme esterofobe del regime). Importante perché la Triestina ospita l’Inter capolista, che precede di un punto i campioni in carica della Juventus, e si vede a ruota inseguita dalla rivelazione del torneo, la piccola Triestina. Con la figlia Linuccia e una sua amica, Saba decide di recarsi allo stadio. La partita finirà 0-0: un pareggio non privo di emozioni (Meazza sbaglierà un rigore) che comporta, per l’Inter, la momentanea coabitazione in vetta alla classifica con la Juve, reduce da una vittoria in trasferta, contro il Palermo. A fine campionato, la Triestina chiuderà nella zona medio-bassa della classifica, la Juventus rivincerà per la terza volta consecutiva lo scudetto, e l’Inter si piazzerà seconda. Ma non è questo che conta. In Saba scatta un sentimento di gratitudine che supera la scoperta improvvisa di una passione fatta di calcoli e allucinazioni tifoidali – come non di rado capita ai neofiti – e si traduce invece nelle Cinque poesie per il gioco del calcio (aperte da Squadra paesana, la più famosa, dedicata ai giocatori «rosso alabardati» della Triestina, e chiuse da Goal, sopra riportata) che ritraggono momenti e dettagli per certi versi marginali di ogni partita (vedi Tre momenti, forse la più frammentata dallo sguardo ‘distratto’ del poeta; o Tredicesima partita, su cui hanno più elucubrato i lettori: di che partita si tratta? quelle maglie bianche e rosse sono sempre della Triestina o, come vorrebbe il poeta, del Padova?, anche se, alla fine, a colpire l’immaginazione sono gli sparuti spettatori intirizziti che si stringono sugli spalti semideserti…). Poesie che Saba scriverà e assemblerà verso la fine del 1933 e nei primi mesi dell’anno successivo, in vista della raccolta Parole, che vedrà la luce nel novembre del 1934.
Dunque, lo «spettacolo bellissimo» che Saba descrive è quello di un “gioco” (sport è anglicismo ancora troppo gergale) del quale egli si sente partecipe, sia pure dalla tribuna. La trama di episodi che nell’arco di novanta minuti, la palla descrive carambolando da un piede all’altro, da una linea all’altra degli schieramenti, da un estremo all’altro del campo, e che cronisti e giornalisti si affrettano a comunicare ai radioascoltatori o a descrivere per i lettori dei giornali, è quella di un destino senz’altro guidato dai buoni piedi dei giocatori, eppure condizionato dalla fortuna («Il vento / deviava il pallone, la Fortuna / si rimetteva agli occhi la benda», leggiamo in Tredicesima partita, e già pensiamo alla Eupalla di Gianni Brera). Di là dall’ordinaria intuizione, rilanciata da tanti scrittori, che il calcio sia in fondo, mutatis mutandis, una metafora della vita, Saba avverte il sentimento che accomuna giocatori e spettatori (e sé fra questi) allo stesso destino in quanto attori di una storia che non esclude nessuno, neanche il portiere che, tagliato fuori dalle azioni offensive, a volte sembra guardare la partita da lontano. A Saba interessa lo spirito di un evento sportivo qual è la partita di calcio, dove occorre rimarcare quello spirito che non ci fa solo partecipi, in senso decoubertiniano, all’evento, ma sentiamo di “appartenere” a qualcosa, sia esso un gioco, dal momento che ne accettiamo – così come accade nella vita – le regole, ne comprendiamo la natura, ne riconosciamo le qualità precipue, come la giovinezza dei calciatori («Le angosce, / che imbiancano i capelli all’improvviso, / sono da voi sì lontane…», Squadra paesana), nonché i limiti, come la vanità e persino la supponenza di chi conosce il successo (vedi Fanciulli allo stadio); senza dimenticare quel senso di libertà che sa tanto di antico quanto di ecologico («Ignari / esprimete con quello antiche cose / meravigliose / sopra il verde tappeto, all’aria, ai chiari / soli d’inverno», Squadra paesana), nonché quel senso di comunità che non si fonda tanto sul provvisorio tesseramento a un club (quello al quale i giocatori sono tenuti, per contratto, a difendere i colori), quanto sull’entusiasmo di coloro che si recano allo stadio per incoraggiare e applaudire dei ragazzi che corrono dietro a una palla e fanno, a loro volta, squadra. Un aspetto che Saba coglie, mettendo in risalto con espressioni forti, com’è vero che siamo in tempi in cui le squadre si fondavano essenzialmente sui vivai (donde quei giocatori «…sputati / dalla terra natia, da tutto un popolo / amati»). Forse è in virtù di questo che il poeta azzarda l’aggettivo paesano riferendosi alla squadra della sua città. Non si può ricondurre, però, questo aggettivo a quella rigogliosa ambizione letteraria “strapaesana”, cioè anti-europeista e anti-plutocratico-occidentale, alimentata dal regime di quegli anni: al contrario, esso assurge al valore di una “piccola patria” contraddetto da uno sport esposto alla sete di profitto dei grandi club i qauli spingono per entrare in un mercato internazionale che muove grandi capitali e usa per questo i giocatori, sradicati dai loro vivai “paesani” e lanciati, con contratti già milionari, in una pericolosa roulette di rischiosi e rapidi guadagni. (Ma quelli erano solo gli albori.)
Può darsi che sia solo un caso che queste poesie di Saba per il calcio siano state scritte fra il 1933 e il 1934, allorché la FIGC, su sollecitazione del regime, aveva deciso di accelerare le fasi di promozione e diffusione del calcio, con la formazione nel 1928 di una prima divisione a girone unico di squadre eccellenti, e di puntare all’organizzazione della seconda edizione del campionato del mondo, dopo la prima del 1930, svolta in Uruguay, con il fermo proposito di un’affermazione vittoriosa, che, oltre a compiacere i programmi suprematisti del fascismo, già avviato alla costruzione dell’Impero, suffragasse lo sforzo economico di una nuova classe dirigente (quale, per esempio, quella degli Agnelli, che a metà degli anni Venti avevano rilevato la Juve, fondata a suo tempo da un gruppetto di baldi giovanotti del Liceo D’Azeglio di Torino, per farne una macchina da scudetti) prepotentemente entrata nei gangli finanziari e populisti di uno sport di “massa”. Fatto sta che, se tale coincidenza è rilevante, ancor più importa notare come a Saba di tutto questo interessi poco o niente: nessun inchino alla retorica celebrativa di questo calcio che già si popolava di divi. Le cinque poesie si aprono salutando una squadra di provincia la cui massima aspirazione era un campionato dignitoso e il traguardo della salvezza, e si chiudono con una poesia sul Goal in cui spicca subito il titolo: non ‘gol’ come prescriveva il dizionario del Panzini; tanto meno ‘rete’, come avrebbero preferiti i neopuristi, involontariamente allineati alla direttive di una lingua autarchica; ma l’anglicismo ‘goal’! E poi scorriamo alle tre brevi sequenze d’immagini, fissate nelle strofe: nella prima, ecco il portiere abbattuto dal gol, e consolato da un compagno; nella seconda, l’esuberante e affratellante gioia degli attaccanti che hanno partecipato all’azione del gol; infine, nella terza, l’esultanza del portiere della squadra che ha segnato, rimasto lontano dall’azione come fosse un qualsiasi spettatore, in una raccolta, appartata ma non esclusiva solitudine, come lascia presagire il poeta nei due finali, in cui presta la sua voce ai pensieri del portiere. Altre informazioni in merito alla partita il poeta non ci consegna, e non direi per una sorta di discrezione, bensì perché, semplicemente, non ne sente il bisogno: com’è possibile macchiare la purezza di un sentimento che attraversa il campo da gioco, in un momento speciale come il gol, accomunando giocatori e spettatori?
E allora, che cosa fa innamorare Saba del gioco del calcio e risvegliare in lui quel sentire così bene espresso in altre poesie come Il Borgo, solo di qualche anno prima («…il desiderio improvviso d’uscire / di me stesso, di vivere la vita / di tutti, / d’essere come tutti / gli uomini di tutti / i giorni»), e lo fa «diversamente – ugualmente commosso» (Squadra paesana)? Nella Triestina di Saba giocano ragazzi di straordinario talento (uno di loro è una giovane promettente mezzala, Nereo Rocco) che hanno l’ambizione di divertirsi e divertire il pubblico, e di salvare la stagione: ma in essa ravvisiamo anche il prototipo di ogni «squadra paesana» in cui si fondono idealmente amore, disinteresse e gratitudine per la vita, nostalgia dell’umano e slancio della poesia. Nel mondo del calcio quale Saba ci restituisce, non c’è posto per palloni d’oro e scarpe d’argento: resiste solo l’eroismo di chi si batte ad ogni partita con la virtù dell’altruismo quotidiano, spinto da quel profondo desiderio di “appartenenza” che lo fa «uscire di sé stesso» (si legge nel Borgo) e «vivere la vita / di tutti», «essere come tutti / gli uomini di tutti / i giorni».