Michelangelo Fabbrini, DA ALLORA SIAMO QUI, Edizioni Clichy, Firenze 2019, pp. 150, euro 15
Il tema di questo libro potrebbe a prima vista risultare ostico. Si racconta, infatti, dell’architetto e urbanista Arieh Sharon (da non confondere con Ariel Sharon, del quale non era nemmeno parente) e del Piano nazionale d’Israele, tra il 1948 e il 1953, cioè dell’ufficio che nel momento di maggiore spinta politica e di più grande intensità emotiva contribuì a disegnare il nuovo stato d’Israele, attraverso uno studio appassionato, per certi versi erudito e ispirato ai migliori principi urbanistici e architettonici del periodo. Nel primo caso ci si riferisce in buona parte alle città-giardino o alle cinture verdi delle città inglesi del “New Town Act”, nel secondo agli stilemi del razionalismo che hanno determinato tanti edifici simil-Bauhaus, soprattutto a Tel Aviv.
L’autore è un architetto che si occupa da decenni di cooperazione allo sviluppo in alcuni paesi emergenti, tra cui la Palestina. Grande cultore della storia di Israele, delle sue conquiste in quella porzione di terra mediorientale così contraddittoria e sempre in bilico tra tragedia e urgenza, Michelangelo Fabbrini ha avuto una geniale intuizione: prendere il bandolo della questione urbanistica alla base della fondazione dello Stato d’Israele e farne, al posto di un trattato, un racconto vero, in forma di invenzione.
Fabbrini è sceso dai comodi binari del saggio per avventurarsi nelle vie impervie del romanzo. E la storia è fatalmente diventata appetibile e, per certi tratti, entusiasmante. Smessi i panni del sapiente, l’autore ha saputo mantenere quelli dello storico e del filologo (se così si può dire). In questo senso è riuscito a contenere dentro gli argini di una vicenda godibile tutti le miriadi di informazioni tecniche, scientifiche e storiche che non rallentano lo svilupparsi della storia, anzi la qualificano come sostanziosa e solida di fatti.
Così insieme ai fatti storici reali ci sono anche situazioni, incontri, dialoghi inventati che però sono assolutamente verosimili e quindi sostanziano la vicenda, facendole assumere i tratti di una storia compiuta e ancor più vera del vero.
Gli incontri tra Sharon e altri architetti sono dettagliati in un modo che soltanto il romanzo può determinare fino alla virgola.
Di grande interesse il capitolo dove si racconta il contrasto tra il governo israeliano di Ben Gurion fedele al sionismo socialista e l’agenzia ebraica borghese e liberale. Già dal 1948 si pone il tema che attraverserà tutta la storia d’Israele e che ancora oggi resta parte del non-risolto. Vale a dire che – spiega Fabbrini nel suo libro – “con la nascita d’Israele, il governo diviene sovrano sulle terre statali e sull’accoglienza degli immigrati. Ora governo ed ebraismo mondiale si confrontano su una questione fondamentale: quando gli immigrati si trasformano da membri del popolo ebraico a cittadini israeliani?”.
In un’altra parte del libro si riporta un dialogo tra il viceministro dell’agricoltura del governo americano di Roosevelt, il rivoluzionario comunista del “New Deal” e Lowdermilk che si occupava di erosione dei suoli per Israele, dove parlano in termini elogiativi della bonifica delle paludi pontine, fatte da Mussolini (come racconta anche lo scrittore Antonio Pennacchi nel suo Canale Mussolini). È proprio il “rivoluzionario” americano di sinistra a parlare di capolavoro per modernizzare uno stato, riferendosi alla bonifica dell’agro-pontino.
Si racconta anche dell’avversione di Ben Gurion per le grandi città, di cui diceva che “non vanno bene per l’umanità”. Il fondatore dello stato di Israele, socialista dentro l’osso, trovava Tel Aviv “imbarazzante”. Il suo modello era il kibbutz, la coltivazione collettivistica dei terreni, l’educazione comunitaria dei bambini, e anche le “piccole città semi-agricole, con quartieri separati da cinture verdi, edifici pubblici al centro, circondati da case unifamiliari costruite su lotti di terreno arabile tra cinquecento e millecinquecento metri quadrati”, come scrive Fabbrini. Ma al tempo stesso mentre l’Ufficio del Piano di Sharon progetta tutto questo e sulla costa costruisce Degania, un gruppo di ebrei imprenditori liberali di Giaffa comincia a edificare, senza pianificazione, un sobborgo del vecchio porticciolo che diventerà Tel Aviv.
Dal racconto si arrivano a capire anche alcune differenze sostanziali tra i pochi pastori arabi presenti sul territorio della Palestina durante il periodo tra le due guerre mondiali e gli intellettuali di sinistra ebrei che tornarono nelle loro terre di origine. Questo libro pare indicare, senza scriverlo formalmente, che il “popolo palestinese” sia, in buona parte, un’invenzione di Yasser Arafat e si riconduca a un periodo successivo alla seconda guerra mondiale, quando la maggioranza del mondo arabo aveva sostenuto fattivamente il Terzo Reich.
Uno dei fattori di conflitto è stato anche un’antica controversia, cioè “il conflitto tra pascolo e agricoltura [che, secondo il libro viene indicato come uno dei principali responsabili] della storia tragica della Terrasanta”.
Nell’ultimo capitolo viene riportato un discorso di Charles Warren che guidò una spedizione proprio in Terrasanta tra il 1867 e il 1870. In questa conferenza Warren cerca di definire chi siano gli arabi della Palestina e dice che “gli abitanti della Palestina sono una razza mista; molti sono musulmani per convenienza, che se venisse tolta la pressione della Turchia [allora stato che dominava in Palestina, sottraendo ricchezze e lasciando in povertà la popolazione mista di arabi, ebrei, cristiani, ndr] e rimossa la religione islamica resterebbero pochi musulmani. I nativi di Palestina non sono musulmani di una sola razza. Essi sono piuttosto discendenti di Canaaniti, Israeliti, Greci, Romani, Arabi, Crociati, che professano la fede musulmana o cristiana secondo le circostanze”.
Warren notava anche come si sarebbe dovuta riprendere la Palestina ai turchi che non la sapevano gestire non nel “malsano spirito degli antichi Crociati”, ma effettuare “una spedizione equipaggiata da cristiani ed ebrei per assistere ed elevare i musulmani di quella terra che avranno titolo di partecipare al governo e così restituire la Palestina a coloro ai quali appartiene per eredità, cioè gli attuali abitanti mescolati insieme dalla storia e gli ebrei dispersi in tutto il Mondo”.
Un po’ quello che è oggi, se fosse sgombrato il campo dai terroristi di Hamas e dagli ultraortodossi.
Certamente Arieh Sharon (da non confondere con Ariel Sharon) e gli uomini del Piano nazionale furono coloro i quali, più di altri, contribuirono a definire lo Stato d’Israele e il suo spazio costruito, come questo importante libro di Michelangelo Fabbrini ci racconta.