18 Novembre 2024
Culture Club

Santeramo, Infinito teatro

L’Infinito comincia alle 12:45. Da questo assunto inizia a girare il ragionamento del drammaturgo e attore Michele Santeramo sul poeta di Recanati, quel tizio parecchio giovane e con la nomea di debosciato che parte della vulgata letteraria gli ha appioppato addosso.
Giacomo Leopardi è un’immensità della poesia italiana, un filosofo cantore, struggente nella lingua e nella musica dei versi, profondo nei contenuti dei suoi scafi metrici, vere e proprie imbarcazioni che navigano nella lingua italiana con le stimmate della profezia, della sana inquietudine, della nostalgia, della critica che tiene a bada il fuoco, della legittimazione della filosofia dentro ai versi scritti per essere capiti – se possibile – pure dalla servitù di Monaldo, il padre “convitato di pietra” dell’esistenza del figliolo abile e irrequieto. Leopardi è il provinciale che vive nell’Universo e sa tracciare costellazioni e mappe per ciascun essere umano che voglia comprendere come la lingua della poesia sia la cartina di tornasole della cultura nazionale, in questo stivale d’Italia che ancora oggi, a distanza di duecento anni, resta affascinato da un sonetto di quindici versi che termina con un imbambolato naufragio nel mare del senso, tra l’immensità e il pensiero individuale.

A Pontedera, dal 21 al 24 novembre, a cura della Fondazione Teatro della Toscana, Michele Santeramo porta in scena al Teatro Era, la prima nazionale dello spettacolo “Di qua dall’Infinito”, con musiche dal vivo di Sergio Altamura alla chitarra e Giorgio Vendola al contrabbasso, e con la partecipazione di Fabio Facchini.
Nel materiale di presentazione dello spettacolo si parla del testo come di “cronache che raccontano con sufficiente certezza che Giacomo Leopardi scrisse L’Infinito, [a partire] dalle 12 e 45 di una mattina di primavera. Questa che si racconta è la vera, verissima ricostruzione di quel che accadde durante quella mattina, fino alle 12 e 45 e oltre, addirittura fino a in questo mare”.
Lo spettacolo cerca forse una strada tra le informazioni storiche e tra l’aura immaginifica della figura del poeta, dando alla funzione del teatro quei momenti di illogica comprensione emotiva che solo certi spettacoli dal vivo possono celebrare. È su questo piano del palcoscenico senza palco che la poesia sorge elementare e vitale come un’aurora sul colle dell’infinito.

Leopardi è una figura mobile e viva della nostra letteratura. Egli si forma su un passato perduto che si infrange sul presente, scrive l’amico Enrico Palandri, l’amore per i greci che sono i suoi veri compagni di vita, opposti alla vita conservata nell’ovatta della casa paterna. C’è una sostanza meta-storica in Leopardi, come fu per gli umanisti del Quattrocento, che avvicina epoche tanto lontane nel tempo, come la sua esistenza e quella, per esempio, di Archiloco.
Per questo il suo amor patrio non è mai militante, non è mai politico. Scrive Palandri: “Essere italiani [per lui] è un dettaglio, quello che siamo davvero è umani, fin dai tempi di Omero. La sua pigrizia di fronte alla politica non è antitaliana, piuttosto antinazionalista, antiromantica”. Le chiavi del romanticismo, cioè lingua, territorio e cultura, sono asservite a un più alto dettame che muove Leopardi: la fiducia nella letteratura. Chissà se Santeramo saprà regalare questa sfida, se saprà fronteggiare questo anticlimax.

[foto di Nico Lopez Bruchi]