15 Novembre 2024
Poetry

Montale, dall’Amiata

Notizie dall’Amiata

 

 

Il fuoco d’artifizio del maltempo

sarà murmure d’arnie a tarda sera.

La stanza ha travature

tarlate ed un sentore di meloni

penetra dall’assito. Le fumate

morbide che risalgono la valle

d’elfi e di funghi fino al cono diafano

della cima m’intorbidano i vetri,

e ti scrivo da qui, da questo tavolo

remoto, dalla cellula di miele

di una sfera lanciata nello spazio

e le gabbie coperte, il focolare

dove i marroni esplodono, le vene

di salnitro e di muffa sono il quadro

dove tra poco romperai. La vita

che t’affabula è ancora troppo breve

se ti contiene! Schiude la tua icona

il fondo luminoso. Fuori piove.

 

*

 

E tu seguissi le fragili architetture

annerite dal tempo e dal carbone,

i cortili quadrati che hanno nel mezzo

il pozzo profondissimo; tu seguissi

il volo infagottato degli uccelli

notturni e in fondo al borro l’allucciolio

della Galassia, la fascia d’ogni tormento.

Ma il passo che risuona a lungo nell’oscuro

è di chi va solitario e altro non vede

che questo cadere di archi, di ombre e di pieghe.

Le stelle hanno trapunti troppo sottili,

l’occhio del campanile è fermo sulle due ore,

i rampicanti anch’essi sono un’ascesa

di tenebre ed il  loro profumo duole amaro.

Ritorna domani più freddo, vento del nord,

spezza le antiche mani dell’arenaria,

sconvolgi i libri d’ore nei solai,

e tutto sia lente tranquilla, dominio, prigione

del senso che non dispera! Ritorna più forte

vento di settentrione che rendi care

le catene e suggelli le spore del possibile!

Son troppo strette le strade, gli asini neri

che zoccolano in fila danno scintille,

dal picco nascosto rispondono vampate di magnesio.

Oh il gocciolio che scende a rilento

dalle casipole buie, il tempo fatto acqua,

il lungo colloquio coi poveri morti, la cenere, il vento,

il vento che tarda, la morte, la morte che vive!

 

*

 

Questa rissa cristiana che non ha

se non parole d’ombra e di lamento

che ti porta di me? Meno di quanto

t’ha rapito la gora che s’interra

dolce nella sua chiusa di cemento.

Una ruota di mola, un vecchio tronco,

confini ultimi al mondo. Si disfà

un cumulo di strame: e tarli usciti

a unire la mia veglia al tuo profondo

sonno che li riceve, i porcospini

s’abbeverano ad un filo di pietà.

 

 

 

Credo che sia necessario, di tanto in tanto, far uscire Montale da una cortina fumogena di aneddoti relativi alla sua biografia, che rischiano di confondere il cammino a chi cerchi di avvicinarsi alla sua poesia. Non si tratta di risolvere la vecchia questione sulla utilità di accostare o meno la vita dello scrittore alla sua opera (tra Sainte-Beuve e Proust, io sono per il primo), ma mi pare che a volte si possa fare a meno di rintracciare se in una poesia un verso vada riferito a quella donna o a quell’altra. Se il poeta non ha rimarcato l’identità della donna allusa, significa che tanto basta (in fondo, l’allusio è una figura retorica) a scontornare la visione dell’eterno femminino, a meno che non accettiamo l’idea che vi sia una voluta “ambiguità” (com’è vero che, si direbbe con William Empson, «l’operare dell’ambiguità è alla radice stessa della poesia»).

Per essere più chiari e arrivare subito al cuore del problema, ho scelto di affrontare una delle poesie più complesse di Montale: Notizie dall’Amiata. Il titolo non ha nulla di giornalistico, ovviamente, se non in via parodica. Certo, Notizie da Monterosso o dalle Cinque Terre, a parità di fascino turistico, non poteva suonare altrettanto straniante: nell’Amiata, in fondo, c’è l’amata. Ma se non è dubbio che il poeta sia stato sull’Amiata, in quale degli undici paesini aggrappati sulle pendici esattamente soggiornò è ancora da stabilire con certezza. Con il distacco di chi la sa lunga, nel passaggio di un’intervista a Guarnieri, Montale si premurava di ricordare che «L’Amiata è il regno di David Lazzaretti (vedi libro di Barzellotti)» (Montale commenta Montale). Di qui è facile inferire che il poeta si riferisca all’Abbadia San Salvatore o Arcidosso, patria del povero Lazzaretti. Forse, però, la parte più importante da decifrare è tra parentesi – dico il libro del Barzellotti, Il Monte Amiata e il suo profeta (Milano 1910) – e vedremo perché. Ci si può chiedere intanto quando Montale visitò l’Amiata, e se era davvero solo (come sembrano indicare i vv. 26-27), e quanto tempo ci rimase. Ma quel che più intrigherà sarà, naturalmente, l’identità del tu che “rompe”, cioè irrompe, già nel primo movimento (v. 15), e non abbandona più la scena, sia nel secondo movimento sia nel terzo. Chi sarà questo tu? Clizia, alias Irma Brandeis? Saperlo con sicurezza è un lusso, ma non è necessario, dal momento che la poesia funziona benissimo, se non meglio, lasciando il destinatario di quei versi inscatolato in quell’anonimo pronome personale di seconda, indefinito, vago (così come non è necessario sapere se Leopardi abbia scritto Il passero solitario a Recanati o a Pisa; ancor meno come mai Pascoli abbia scritto L’aquilone, che parla di Urbino, a Messina).

Ma la curiosità è tanta, e qualcuno si preoccuperà di appurare se «Il fuoco d’artifizio del maltempo» preluda a un ciclone atlantico, spinto da un vento di tramontana (ecco il «vento del nord») in transito sull’Italia centrale nell’ottobre del 1938, quando il poeta cominciò a scrivere la poesia, e quanto eventualmente durò: tanto da soffocare ogni residua nostalgia estiva ancora annidata nella modesta stanzetta della pensione in cui alloggiò il poeta. La stanzetta aveva di sicuro un tavolo, però «remoto» (lontano dalla finestra?), dove il poeta poteva scrivere, oltre al solito mobilio, di cui il poeta tace. Non tace invece della sua passeggiatina nel centro storico del paesello dell’Amiata, di cui però non ci fornisce dettagli sufficienti per farcelo identificare, forse perché è pedante identificarlo, sicuramente per non distrarre il lettore dalla fitta tessitura simbolica dispiegata nella poesia.

Torniamo allora a quel «fuoco d’artifizio del maltempo». Nessuno mi stanerà dalla testa che quella perturbazione atmosferica che il poeta vede arrivare dalla sua stanzetta significa qualcos’altro. Notizie dall’Amiata è l’ultima poesia delle Occasioni, e apre un passaggio evidente alla successiva raccolta, La bufera, il cui titolo non può essere interpretato in chiave meteorologica. Quel «maltempo» prelude alla «bufera»? Notizie dall’Amiata fu scritta tra gli ultimi mesi del 1938 e i primi del 1939, e gli interpreti ricordano quale drammatica decisione dovette prendere, in quei mesi, Montale: seguire Irma in America o restare in Italia? Irma era l’amore, e l’America una specie di terra promessa. L’Europa, per contro, appariva spazzata da funesti presagi di guerra (dopo l’Anschluss, si aprì la questione dei Sudeti, si tenne la farsesca conferenza di Monaco, arrivarono le leggi razziali in Italia, e venne la notte dei cristalli in Germania): non va trascurato che Montale, fra i dubbi che lo tenevano aggrappato al vecchio continente (di là dai benefici che procurava la relazione con Drusilla), addurrà proprio un suo sentimento d’angoscia. Letta in questa chiave la prima stanza si presterebbe a un’interessante lettura in sottotraccia: il paesaggio un po’ fiabesco e medievale che il poeta intravede o immagina (dal suo «tavolo remoto») è quello di una vecchia civiltà che tramonta; e la «stanza», dove egli passa la notte, rievoca un’immagine cosmologica («la cellula di miele / di una sfera lanciata nello spazio») in cui potrebbe inscriversi il destino di ogni uomo. Questo non cancella dalla poesia le tracce di quella vita quotidiana («le gabbie coperte, il focolare / dove i marroni esplodono, le vene / di salnitro e di muffa…») in cui irromperà la figura femminile, la dolce amata Assente, la quale, se già appare oggetto di “favola” (lessema alquanto petrarchesco) in quei difficili anni, ancora di più lo sarà in futuro. Insomma, tutto è perfettamente magico («Schiude la tua icona / il fondo luminoso») e reale («Fuori piove»): forse qualche suggestione venne da un certo realismo poetico transalpino (penso alla sequenza onirico-surreale dell’Atalante di Jean Vigo, in cui la dolce Juliette appare sott’acqua, schiudendosi come un’icona su un fondo luminoso).

La seconda stanza, anche se lunga, è meno complessa, dal momento che sfrutta il varco tracciato dalla precedente, girata tutto in “interno”, da cui il poeta guarda fuori, verso l’“esterno”. Ora, invece, il poeta è tutto fuori: percorre il misero paesaggio urbano che si rivela nella sua fatidica cupezza («il volo infagottato degli uccelli / notturni»; l’«allucciolio / della Galassia» in fondo al «borro», sul quale è legittimo dubitare che Montale non intenda qualcosa di più profondo di un semplice canale di scarico, ovvero uno spazio più profondo; il «cadere di archi, di ombre e di pieghe»; l’«occhio del campanile» fermo, come vogliono i racconti del terrore, sulle due; l’«ascesa di tenebre» che disegnano i «rampicanti»), fino all’invocazione a un «vento del nord» che porti freddo e morte. Questo vento assume i tratti drammatici di una punizione che oltrepassa la condizione esistenziale del poeta, proiettandone la malinconia sentimentale sia sulle sconvolte sedimentazioni geologiche dell’arenaria tipiche degli Appennini, sia in un tranquillo solaio dove giacciono i libri d’ore e ritmicamente batte un pendolo nella sua cassa che domina e imprigiona «il senso che non dispera». Finalmente, il lungo girato di questo secondo movimento si chiude nella descrizione visionaria di un paesaggio che annuncia la fine (ed ecco gli «asini neri / che zoccolano in fila» dando «scintille»; le «vampate di magnesio» dei fulmini di una tempesta imminente; il «gocciolio» della pioggia che comincia a scendere sulle «casipole buie», accendendo – per associazione analogica – una serie di immagini esiziali: l’acqua rievoca il tempo, questo la nostra mortalità, quindi la cenere, il vento, «il vento che tarda» ma che un giorno arriverà, «la morte, la morte che vive»).

Ma è davvero la fine? Può darsi che la «rissa cristiana», con cui si apre la terza stanza, se presa alla lettera (come ci suggerisce lo stesso Montale nella lettera a Guarnieri sopra citata), vada intesa come l’eterno débat fra anima e corpo, ma gli indizi di una calcolata ambiguità sono tanti che, al netto di ogni reductio ad unum della vulgata, mi pare di leggere in quella rissa quell’altra, che Montale paventa, “fra cristiani”. Il poeta trascorre con una velocità di montaggio straordinaria dal piano personale a quello storico, dall’io empirico, privato, a quello trascendentale, che ci coinvolge, e viceversa. Bisogna rallentare la lettura, per quanto si può. Che cosa «porta» laggiù, alla donna che lo aspetta, dei dubbi e delle ambasce di un uomo innamorato, ma incapace di risolversi a partire, questa «rissa cristiana», la quale riferisce solo «parole d’ombra e di lamento»? Questa storia d’amore, insomma, è niente rispetto al perverso disegno storico che si sta delineando all’orizzonte. Quel che il poeta stimerà come un suo sentimento rifluirà presto in una «gora», e lì troverà, in quella «chiusa di cemento», sepoltura. Che cosa resterà intorno, da ammirare? Non c’è che «Una ruota di mola, un vecchio tronco», nient’altro che «confini ultimi al mondo»: come dire che oltre non è dato andare. Sotto «un cumulo di strame», fango di foglie e melma, potrebbe muoversi qualcosa, è la traccia della vita che ricomincia, e si manifesta in una famiglia di «porcospini» (sulla cui simbologia mistica di animali terragni, viscidi, ma tanto timidi quanto umili, non s’è mancato, giustamente, di scavare) che «s’abbeverano a un filo di pietà». Pietà, attenzione, là dove ci si aspettava l’acqua. Ma “pietà” di cosa? È un messaggio positivo, in fondo, quello che, nell’ultima stanza, il poeta lascia al lettore che sta per congedare, disarmando ogni sua speranza di sapere qualcosa di più sul suo amore incompiuto. Che importa di questa povera vicenda privata di fronte al disegno che in essa si cela e la trascende? Non è detto che tutto finisca all’insegna di quella “morte” che ostruiva ogni varco nel precedente movimento. No, vi è ancora spazio per una pietà che non si rivolge a qualcosa in particolare che suscita pena, non è compassione da distillare con un filo di voce: è, invece, la pietas, un sentimento tanto antico quanto inattuale che risgorga dalle viscere della terra battuta e maltrattata, e ci ricorda qual è l’elemento fondamentale della vita, cui gli animaletti, già serviti a Schopenhauer per illustrare il grande dilemma delle relazioni umane, sanno saggiamente tornare. Che sia questa la parola chiave della poesia?

Salvatore Ritrovato

Salvatore Ritrovato (1967), poeta, critico, docente di letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università di Urbino. Fra le sue ultime pubblicazioni, la nuova edizione di La differenza della poesia (Puntoacapo, 2017), e la breve raccolta di versi, Cercando l’isola (Fiorina edizioni, 2017).