Il Belpaese? La Svizzera
Elvezia il tuo governo… il vecchio canto degli anarchici “Addio Lugano Bella”, scritto dal siciliano ed elbano Pietro Gori, oggi riguarda anche i contribuenti italiani. Ma in senso opposto a quello dei “cavalieri erranti” dell’anarchia, spediti fuori, senza troppi complimenti, dal territorio elvetico. Nel 2018, infatti, la Confederazione Elvetica ha avuto una eccedenza, nel bilancio pubblico, di 2,5 miliardi di Franchi, che aumenterà, come oggi sembra, nel 2019. Da noi, sembra impossibile, uno scherzo di cattivo gusto, una bella fola dei politicanti inetti che ci ritroviamo tra le balle.
Ecco la Svizzera. Niente moneta unica europea, niente parlamenti internazionali che intonano l’Inno alla Gioia della Nona di Beethoven; niente NATO (salvo il Partenariato per la Pace, con cui gli svizzeri collaborano). Ed è soltanto dal marzo 2002 (pur con pochissimi voti di maggioranza al referendum popolare sull’argomento) che Berna fa parte dell’ONU. Ma anche, ricordiamo, con quello che ritengo essere ancora il miglior esercito europeo, evoluto e molto aggressivo, di massa e stabile, e con un segreto di Pulcinella, qualche atomica smontata in qualche monte alpino vicino all’Italia. Niente a che fare con il pacifismo italiano, quindi, o con le geremiadi antiatomiche dell’assillo infantile nazionale. Anzi. Ma allora, come fanno gli svizzeri ad avere bilanci pubblici così solidi?
Anni fa, gli addetti militari accreditati a Berna si videro sfrecciare a pochi metri dal loro volto un Mirage 2000, per scherzo, e la foto dei militari terrorizzati, scattata dall’aereo, fece il giro delle cancellerie. Per il 2019, il bilancio pubblico di Berna prevedeva 72 miliardi di spesa con un avanzo netto finale di 1,2 miliardi. Come si fa? Innanzitutto tenendo “puliti”, così dicono i tecnici elvetici, i loro bilanci, poi con un sistema fiscale attraente, infine con un livello di spesa per il mantenimento del sistema burocratico notevolmente bassa.
Gli esperti del bilancio svizzeri ci dicono anche che il limite europeo del 60% del PIL per l’indebitamento pubblico è del tutto arbitrario, con il Giappone che oggi supera il 200% del rapporto debito/PIL ma, dato che le banche nipponiche se lo ricomprano tutto, non sorgono mai problemi. Né sorgevano quando, anche in Italia e fino al 1981, la Banca d’Italia si ricomprava, al loro valore facciale, i titoli del debito pubblico rimasti invenduti.
Altro motivo dei successi elvetici sul bilancio pubblico è la valutazione generosa delle spese in bilancio. Invece, in Italia, si fa tutto con i fichi secchi, magari per evitare le torture della Commissione UE e poi, alla fine, bisogna correre ai ripari con qualche asta finale dei titoli pubblici. Quando va bene.
Il debito pubblico italiano è cresciuto a dismisura, guarda caso, negli anni ’80 e ’90, proprio dopo il suddetto “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia. Nel 1980 il rapporto debito/PIL era del 57,7%, appena al di sotto di quello degli altri Paesi europei, ma la spesa pubblica di Roma, ricordiamo, era sempre più bassa del resto della UE. Nel 1994, l’anno che fa da spartiacque tra la Prima e la sedicente seconda Repubblica, la spesa pubblica era il 42,1% del Pil, al netto degli interessi sul debito. Sempre al di sotto del livello dell’Eurozona.
Da cosa deriva quindi l’impennata sul debito pubblico italiano? Dalla spesa per interessi, che esplode al 13% in Italia mentre in UE rimane al 4,4% in media. Altro che le “ruberie” della classe politica, con cui hanno costruito le loro carriere gli incapaci politicanti attuali, ma l’uscita temporanea dal sistema monetario europeo, a causa della grande svalutazione seguita all’attacco alla lira del 1992, che fece impennare stabilmente gli interessi e, quindi, ridusse lo stock possibile del debito.
Secondo obiettivo di quegli anni, per il nostro debito pubblico, fu la deflazione salariale, voluta dalla Confindustria per comprimere le retribuzioni, dopo l’accordo di San Valentino sulla scala mobile (craxiano e demichelisiano) del 1984. E la Confindustria, ricordiamo, era contraria all’accordo che congelò l’inflazione. Che era una manna per tutti, ma soprattutto per i padroni incapaci che giocavano tutto sulla svalutazione della Lira sui mercati dell’export.
Ma ritorniamo sulle vette alpine. Il bilancio svizzero 2020 prevede entrate per il 31,8 % dalle imposte federali dirette, la principale tra le poche (altro merito) inventate dallo Stato di Berna, l’imposta preventiva è il 10,4%, una imposta preventiva che è raccolta alla fonte sui redditi da capitale mobiliare, ovvero interessi e dividendi. L’IVA svizzera vale il 31,2% delle entrate, con tutte le altre imposte e tasse (tabacchi, bolli, oli minerali, etc.) che sono il 10% circa delle entrate confederali del 2020.
E le uscite? La sola Previdenza Sociale, tra pensioni di anzianità e tutela della salute, vale ben il 32% delle spese, poi i trasporti sono al 13% mentre la Sicurezza è al 6,8% (altro che i risicatissimi finanziamenti alle nostre Forze Armate e alle Polizie) poi arrivano l’Educazione e la Ricerca, con un 10,8% inimmaginabile in Italia. Poi anche il 4% circa per le Relazioni Estere, e quasi un 5% spesi per l’Agricoltura e le Foreste. Che, in Svizzera, sono ancora moltissime. Qualcuna è particolare: anni fa, in vacanza nel Canton Vallese con una mia amica, ci accorgemmo che dopo le 18 la montagna tremava. Perché? C’erano, sotto i monti fatati, delle potenti turbine, che producevano l’energia elettrica per tutto il Cantone. Non oso immaginare cosa sarebbe accaduto con i vari comitati locali in Italia, mentre nella Confederazione i Verdi sono al potere e coniugano con intelligenza ambiente ed economia.
Oggi, la Commissione del Consiglio degli Stati (che ha solo 46 deputati) vuole più spesa per la Ricerca e l’Educazione che è già ottima. Il Consiglio di Stato la vuole aumentare di 100 milioni di franchi, mentre la Commissione della “camera bassa” è contraria.
Mi ricordo che, quando insegnavo all’UNI di Zurigo, ci fu una grande discussione sul fatto che i tram urbani dovevano essere silenziati, nelle curve, con un ritrovato pensato dal Politecnico Confederale della città. Ecco, erano gli anni di piombo, in Italia, la gente cominciava a scoprire la crisi che vi ho descritto sopra, ma lì c’era il tempo per discutere animatamente di questioni del genere. Come diceva Goethe, “sovra tutte le cime vi è pace”…