Poesia e preghiera di Francis Jammes
Mon Dieu, faites que celle qui pourra être ma femme
soit humble et douce et devienne ma tendre amie;
que nous nous endormions en nous tenant la main;
qu’elle porte au cou, un peu cachée entre les seins,
une chaîne d’argent qui a une médaille;
que sa chair soit plus lisse et plus tiède et dorée
que la prune qui dort au déclin de l’été;
qu’elle garde en son cœur la douce chasteté
qui fait qu’en enlaçant on sourit et se tait;
qu’elle devienne forte et sur mon âme veille
comme sur le sommeil d’une fleur une abeille;
et que le jour où je mourrai elle me ferme
les yeux, et ne me donne point d’autre prière
que de s’agenouiller, les doigts joints sur ma couche,
avec ce gonflement de douleur qui étouffe.
Mio Dio fate che colei che poi sarà mia moglie
Sia dolce e riservata e per me un’amica premurosa;
che ci si possa addormentare tenendoci la mano;
che porti al collo, un po’ nascosta tra i suoi seni,
una catenina d’argento con una medaglietta;
che la sua pelle sia più liscia e più tiepida e dorata
della prugna che sonnecchia sul finire dell’estate;
che custodisca nel suo cuore la dolce castità
che fa sorridere e tacere quando ci si abbraccia;
che sia forte e vegli sul mio cuore
come un’ape sopra un fiore che riposa;
e che il giorno in cui dovrò morire
mi chiuda gli occhi e non mi doni altra preghiera
se non l’inginocchiarsi, le dita giunte sul mio letto,
con la piena del dolore che arriva a soffocare.
Credo che possa interessare solo un curioso di aneddoti appurare se davvero, dopo questa poesia, Francis Jammes (1868-1938) riuscì a trovare la moglie auspicata nella “preghiera” a Dio (l’undicesima delle Quatorze prières, 1898, nella traduzione sopra riportata di Roberto Gabellini, Raffaelli Editore, Rimini, 2017). Il fatto è che la “moglie” di cui parla Jammes non è semplicemente una moglie, è molto di più: una donna, una figura dell’eterno femminino, la poesia stessa. Essa riguarda un mistero che provvede a svelare, fisicamente, e nello stesso tempo ad avvolgere in una lontananza metafisica la parola con cui il poeta conta per arrivare al cuore di un Dio inteso fuori dal suo perimetro teologico, sia come creatore sia come prossimo, altro da sé, e approssimazione del sé. Vale per Jammes quel che accadde a quel poeta di cui parla Khalil Gibran in una canzone d’amore: il poeta inviò una copia della sua canzone a una fanciulla incontrata tempo addietro, che pensò fosse scritta per lei; ma si trattava solo di «una canzone d’amore sgorgata dal cuore di un poeta, e che ogni uomo può cantare a ogni donna» (Il piccolo libro dell’amore, trad. di K. Bagnoli, Guanda, Milano 2108, p. 99).
Il poeta attinge alla sua esperienza personale, per parlare a nome di un gruppo di persone o di una comunità, di un popolo, o semplicemente di una élite di iniziati, di un gruppo di amici, insomma di quanti hanno la sensibilità per comprendere le sue parole nel loro più profondo valore espressivo. È ovvio, pertanto, che chiunque legga la poesia di Jammes possa riconoscersi, in parte o in toto, nei suoi versi, qualora nutra come lui un sentimento lato sensu religioso che lo lega tanto al creato quanto alla sua specie, senza bisogno di indagare se e in che misura la sua poesia presagisca, nel caso di questa Prière, la gioia che il poeta probabilmente assaporò solo nel 1907, quando sposò Geneviève Goedorp, una sua fervente ammiratrice, da cui ebbe sei figli, e che gli ispirò probabilmente Géorgiques chrétienne (1912).
A trasvalutare in maniera anche più evidente il concetto di “esperienza” nella poesia di Jammes non è, però, soltanto il fatto che la sua poesia racchiuda un mistero – quello di una figura femminile (per dirla in breve) che non scende dal cielo a miracol mostrare, ma si presenta, nella sua terrena umile semplicità, come senhal della Grazia divina –, ma vuole essere intesa come “preghiera”, nonostante non ne rispetti il paradigma fondativo. Preghiera in senso metaforico? Sì e no. Infatti, non è la donna a farsi angelo ma il poeta, «amante delle prostitute e delle fidanzate oneste», a portare alla donna l’«angelus che non ha fine» Non esiste un solo modo per “pregare” l’assoluto, ritualizzandone la parola, così come avviene nelle liturgie dei culti mono- o politeisti; ma vi sono modi più sommessi e privati, che provengono forse da un retroterra culturale, sì, di antica tradizione, tuttavia liminare alla grande letteratura mistica che attraversa i secoli. È il Dio, quello di Jammes, che s’incontra per strada, nei volti, nella semplicità dei gesti, nella chiarezza delle parole, nei silenzi interminabili delle campagne e delle montagne, nella pace di un paesaggio che si apre davanti agli occhi alla fine di una passeggiata: insomma, una sorta di tensione religiosa che innerva il tessuto della poesia proiettandolo su un orizzonte più ampio e profondo, in situazioni persino paradossali – come nell’ottava Prière pour aller au paradis avec les ânes (‘Preghiera per andare in paradiso con gli asini’) –, e comunque ci mette al riparo da comodi anacronismi new-age, dal momento che non si accontenta di rilevare la potenziale armonia con cui possono essere governati i rapporti fra l’uomo e la natura, il creato, ma anche il senso di salvezza che si annida nell’adozione di tale prospettiva, chiamata oggi “ecologica”.
Così come avviene, mutatis mutandis, nel caso della poesia che abbiamo scelto a proposito della donna, il poeta desidera ardentemente di andare in paradiso con gli asini che non sono solo i noti mammiferi quadrupedi che hanno accompagnato l’uomo nel lavoro per millenni, prima di diventare oggi specie in estinzione, ma rappresentano quanti hanno vissuto una vita da “asini”, portando – leggiamo – pesi enormi, trainando carrette di saltimbanchi o carrozze di piume e lamiere, muovendosi a passi incerti per gravidanze o piaghe oscure e purulente, «aperte da mosche cocciute che vi si aggruppano a frotte». Il perno intorno al quale gira l’universo poetico di Jammes non è l’idillio finito di un’età favolosa, precedente al peccato mortale, e recuperabile in un aldilà altrettanto favoloso in cui ogni errore sarà giudicato ed emendato, e ogni perdita risarcita; ma è l’idillio come condizione spirituale del “bene” cui, fisiologicamente (ed escatologicamente), aspira l’anima. Dov’è e in che cosa consiste, invece, il “male” nell’opera poetica di Jammes che si spalanca non di rado su sipari di campi sonnolenti, arieggiati da leggere brezze, dove scorrono ruscelli e, all’ombra di nuvole rade e alte, si alternano di collina in collina prati e coltivi? Il male è nel dimenticarsi di non essere niente: «Per essere felici, conviene scordarsi di sé stessi: / poiché noi siamo niente e il mondo è guasto» (Prière pour se recuillir); nel non saper togliere dal proprio cuore il vano orgoglio: «Levate dal mio cuore, che tanto ha disperato, / l’orgoglio di pensarmi un creatore originale. / Io non so niente. Non sono niente […] Fate che scrivendo il mio orgoglio se ne vada / e io ammetta che il mio cuore è l’eco delle voci / del mondo tutto intero […] La gloria è vana, Signore, e il genio pure. / Esso è vostro solamente e agli uomini lo offrite» (Prière pour avouer son ignorance); nel non saper fare a meno della gloria: «La gloria è vana e lascia inquieto / chi sa che Dio è l’unico poeta, lui solo / lui solo a posare il profumo che hanno i tigli / sulle labbra fresche e dolci degli amanti» (Prière pour que le jour de ma mort soit beau et pur). E così via, innumerevoli sono i passi che potremo inanellare, e portano tutti nella medesima direzione: quella di una ricerca di “semplicità” che è forse la vena d’oro della poesia del Novecento, e non può essere ridotta a un’appartata trincea “antinovecentista”, com’è vero che interseca, variamente variandola a seconda dei contesti, l’opera di diversi e persino lontani poeti in una sorta di difesa non dalla modernità, bensì dalla vanità di tanti suoi idoli.
Quale rimedio, dunque, offre la poesia? Bisognerebbe leggere per intero, al termine di questo succinto periplo intorno alla poesia di Francis Jammes, la Prière pour offrir à Dieu de simples paroles (‘Preghiera per offrire a Dio parole semplici’), onde poi tornare al componimento presentato all’inizio, ma ci limitiamo a sottolineare l’immagine che questa poesia sviluppa, ovvero la similitudine fra il lavoro dell’artigiano che lavora con il legno producendo le immagini dei santi, e quello del poeta che si accosta alla realtà del mondo per riprodurne le figure con la stessa pazienza e umiltà, ma anche con la consapevolezza (assolutamente moderna) di una differenza: se pure le sue parole risultano alla fine semplici, non lo è il cuore, con quei moti che noi chiamiamo “sentimenti”, che lo agitano e scuotono, e talvolta lo spezzano. Perciò la poesia si fa carico di liberare e educare il cuore: liberarlo da gioghi e schematismi comunicativi che ne ingabbiano l’espressione; educarlo al riconoscimento di una verità maggiore e superiore che soffia tanto nella vita quanto nella morte.