Andrea Tarabbia, Madrigale senza suono, Bollati Boringhieri, 2019, € 16.50
Mancava un libro così complesso su Gesualdo da Venosa, rivoluzionario madrigalista che a cavallo tra Cinquecento e Seicento si fece portatore di una avveniristica concezione musicale, il cui valore fu riaffermato in pieno Novecento soprattutto da Igor Stravinskij. Ma non mancava certo una grande quantità di fonti eterogenee, dovute in parte al fascino della sua così originale produzione e in parte al mistero della sua drammatica vicenda personale, a partire dal più noto episodio in cui fece strage della moglie Maria d’Avalos e del suo amante, fino alla soppressione per stregoneria dell’ultima sua concubina Aurelia d’Errico. Andrea Tarabbia fa un grande lavoro di raccolta e riutilizzo di tutte le diverse fonti e riflessioni per edificare un affresco che non sacrifichi nemmeno una virgola della complessità della storia.
Due le voci narranti principali, in una struttura che si appella al topos del manoscritto ritrovato: Igor Stravinskij, a cui è affidato uno sguardo dall’alto e dalla lontananza dei secoli, che inquadra la vicenda anche nella sua complessa relazione con la contemporaneità musicale, e il fedele Gioacchino, per sua natura (che non possiamo precisare per non rivelare troppo) capace di uno sguardo più da vicino quando addirittura non profondamente interno. E proprio il modo in cui viene riplasmata questa figura (variazione di quella del “Prevetuccio”, l’abate nano a cui il regista Luigi Di Gianni aveva affidato la narrazione nel suo docufilm su Gesualdo del 2009) è esemplare del lavoro fatto dallo scrittore bolognese sul riuso (e la reinvenzione) dei materiali.
Ne viene fuori un libro in cui le invenzioni strutturali stesse sono da interpretare analogicamente, sullo stesso piano del materiale storico. La stessa complessità tecnica della polifonia “sghemba”dei madrigali gesualdiani è restituita nell’ordito di diverse voci, narranti e non, su cui si installa una trama fatta di vita pubblica e rovello privato, realtà e incubo, conscio e rimosso, ambizioni, frustrazioni e sensi di colpa. Lo scrittore a volte rallenta il passo per concedersi la degustazione del particolare e dell’episodio, in altri casi accorcia le distanze e alza il ritmo quasi a voler scandire un tempo liberatorio, anche usufrendo dell’alternanza delle voci: la lingua del narratore antico ha una leggera patina lessicale che non ne inficia la leggibilità; decisamente più svelta quella di Stravinskij, ad eccezione della lunga lettera/ouverture iniziale. Non mancano le accensioni di crudo realismo tipiche della scrittura di Tarabbia, come del resto tipicamente tarabbiana è l’ossessione tematica per le zone d’ombra dell’umano.
Tra voci esplicite e voci implicite nascoste all’interno della trama si scompone dunque l’identità diurna e notturna di Gesualdo, in quello che di fatto risulta alla fine un grande madrigale (senza suono, naturalmente) e allo stesso tempo la sua stessa interpretazione. Un libro sicuramente complesso di cui però è ammirevole anche la capacità di stregare un lettore magari forte ma non necessariamente troppo strutturato, come testimonia il riconoscimento avuto dalla giuria (popolare) del Premio Campiello, di cui è risultato vincitore nel 2019.