Sanremo Diodato
La fiera dell’intensità
È stato un Sanremo non immaginabile prima. L’unica cosa prevedibile era che le roventi polemiche su Junior Cally si sarebbero spente rapidamente; ma questo melodrammatico accavallarsi di cose e di fatti, queste wagneriane durate, questo accalcarsi degli spettatori come se fossero curiosi dinanzi a un incidente stradale (è stata la finale più seguita degli ultimi vent’anni dopo il 2002) non erano prevedibili. Amadeus ha fatto un Sanremo tutto suo rimanendo in filigrana tra gli ospiti fissi e le conduttrici che si sono alternate. In realtà tenendo salda la barra quando c’erano da gestire dei momenti complessi. Alla fine passerà sicuramente alla storia per aver firmato il primo Festival nel quale un artista abbia abbandonato volontariamente il palco. La musica è stata buona, con solo un paio di brani su ventiquattro davvero brutti e una generale spinta di rinnovamento del panorama in grado di affacciarsi a una manifestazione come questa. Il televoto si conferma come lo scorso anno arma non sufficiente a far prevalere uno al posto di un altro. Diodato l’ha presa con forti richiami alla tradizione e un afflato tecnico apprezzabile, Gabbani l’ha persa con un andamento altalenante delle sue prove. Il pezzo di Elodie rimane forse il migliore per qualità di scrittura, ma lei non l’ha cantato così bene. Sono comunque canzoni che la gente vorrà sentire alla radio e sulle piattaforme digitali, e questo è un risultato. Rimane questo senso di intensità che non sarà facile riprodurre in futuro, questa capacità di far fare alla gente ore da reddito di cittadinanza per vedere cosa c’è dentro. E tanti a porsi le domande sbagliate, che non hanno capito dopo settanta edizioni che Sanremo è Sanremo.