Le carceri il virus e Repubblica
È successo che ho discusso con un amico, non solo uno che stimo tale, quanto piuttosto uno che ho scoperto e sentito tale: una sorta di colpo di fulmine. Diciamo che io sono incline al colpo di fulmine. Mi piace il principio. Basta una frase, un comportamento, una ragione espressa con modestia, una parola e un orecchio disposto all’ascolto, basta un gesto d’affetto fatto per il piacere di farlo e per quello che si pensa sia il piacere di riceverlo.
Sono giorni così. Tutto intorno ha un che di inedito, di inesplorato. Questioni di sopravvivenza si impongono in ogni aspetto della conversazione privata. Altro che “il pubblico è privato del politicamente corretto”, siamo ben oltre. S’impongono regole arbitrarie per induzione. Dato che un contagio si ha misteriosamente per trasmissione di poco o di tanto che sia – ricordate quando era l’ago della siringa? Ora è attraversare per caso lo spazio di uno starnuto -, dato che muoiono ancora gli anziani come in genere fanno da che mondo è mondo, dato ci si ammala in gran massa e se non ci si ammala si pensa che potremmo anche farlo e ci si mette in quarantena che poi sono due settimane e non nove settimane e mezzo. Si può? Ma certo, anzi grazie.
Ho detto al mio amico che Repubblica non mi piace, ma non da ora, da tempo, che non mi piace ora e che posso azzardare che difficilmente mi piacerà domani. È il quotidiano delle disgrazie raccontate come se fosse sempre colpa nostra. Non crediamo in quello che siamo, il che ha un suo fondamento, ma noi siamo molte cose, tanti pensieri, tante volontà, tanti bisogni, tante condizioni, tanti elementi di fatto, tante aspettative, tanto oggi su domani.
Gli ho detto: per me conta lo sguardo. E lui mi ha risposto ma quella è la verità. Ecco siamo ancora al confronto tra lo sguardo e la verità. Ai margini si raccoglie il dubbio e poi la rabbia e perfino l’opportunità. Qual è la ragione per cui si impedisce ai carcerati di incontrare i parenti e gli avvocati, qual è la ragione per cui norme restrittive concludono accanendosi con chi ha già contro di sé la pratica di piccoli gesti continui d’accanimento.
Sui tetti del carcere, Napoli; nel carcere di Milano di Modena, Frosinone, Firenze, Vercelli, Alessandria, Foggia, Bari e Pavia, e nelle accese rivolte di ieri fa di nuovo capolino la condizione dei dannati già classificati tali.
Tre morti. Restano a terra e se ne fa cenno a pagina 15 nel titolo e in tre righi. Di Camus, Genet, del Manzoni s’è detto e di Macchiavelli si continuerà a farlo. Perché fermarsi. La verità che si spiattella è quella di uno sguardo che insiste nell’approfondimento del dettaglio perché teme di alzare la testa, il confronto con lo sguardo lontano.
Non lavoreremo a lungo, impoveriremo a vista d’occhio, dovremo davvero aguzzare l’ingegno e i più abituati a farlo sono i malandrini, lavorare da casa per finta va bene, per davvero è un casino incredibile. Tu contratti e il bimbo chiama, scrivi e la bimba disegna fuori dal foglio e dal cartone che hai messo per proteggere il parquet, il collegamento per la call conference è difficile, prima di dimostrarsi difettoso poi.
Ma tu sei a casa e non puoi farci nulla. Annullano contratti che pensavi acquisiti. Su quei redditi hai calcolato i costi di una vita non facile ma dignitosa. Si tratta di arrivare all’estate. Anche questa è una stagione, vero? Vero che passa? Vero che arriva?