«La vita vera è altrove». Una poesia di Adam Zagajewski
Autoportret w samolocie
w klasie ekonomicznej
Skulony jak embrion,
wtłoczony w ciasny fotel,
próbuję sobie przypomnieć
zapach świeżo skoszonego siana,
kiedy drewniane wozy zjeżdżają
w sierpniu z górskich łąk,
ślizgając się na polnych drogach,
i woźnica krzyczy głośno, tak jak zawsze
krzyczą mężczyźni w chwilach paniki
– już w Iliadzie tak wrzeszczeli,
i nigdy potem nie zamilkli,
ani w czasie wypraw krzyżowych,
ani poźniej, dużo poźniej, blisko nas,
kiedy nikt ich nie słucha.
Jestem zmęczony, myślę o tym, o czym
nie da się myśleć – o ciszy, jaka panuje
w lesie, kiedy zasnęły już ptaki,
o zbliżającym się końcu lata.
Trzymam głowę w dłoniach,
jakbym chciał ją uchronić od zniszczenia.
Widziany z zewnątrz, mogę się zapewne
wydawać nieruchomy, nieomal martwy,
zrezygnowany, godny współczucia.
Ale to nieprawda – jestem wolny,
może nawet szczęśliwy.
Tak, trzymam w dłoniach
moją ciężką głowę,
lecz w niej właśnie rodzi się wiersz.
Autoritratto in aereo
in economy class
Rattrappito come un embrione
pigiato in un sedile stretto,
provo a ricordare
il profumo del fieno fresco,
quando d’agosto i carri di legno
scendono a valle dagli alpeggi
slittando sulle strade campestri,
e riecheggia un grido spaventato,
gli uomini gridano sempre in preda al panico
– già nell’Iliade gridavano così,
e poi non hanno mai smesso,
né al tempo delle crociate,
né più tardi, molto più tardi, accanto a noi,
quando nessuno li ascolta.
Sono stanco, penso a ciò che non si
lascia pensare – al silenzio che regna
nel bosco, tra gli uccelli dormienti,
alla fine dell’estate che si avvicina.
Mi tengo la testa tra le mani,
quasi a proteggerla dalla distruzione.
Visto dall’esterno appaio senz’altro
immobile, pressoché esanime,
rassegnato, degno di compassione.
Ma non è vero – sono libero,
forse persino felice.
Sì, tengo tra le mani
la mia testa pesante,
dove però sta nascendo una poesia.
Forse è prevedibile che nella giornata della poesia si punti l’attenzione su una poesia che parli in qualche modo di sé, di come e quando essa può nascere (che sono forse le domande più frequenti che il lettore rivolge allo scrittore); ma con i versi sopra citati il mio pensiero va più al loro autore, Adam Zagajewski, uno dei più maggiori poeti viventi, polacco, cosmopolita, che all’ente astratto di cui oggi si celebra la fausta presenza. Evitiamo la retorica: io sono del parere di quanti sostengono che non esiste la poesia ma il poeta, anzi i poeti, in un’accezione ampia, plurale, politica, sociale, culturale, esistenziale. I poeti come uomini, non come vati o profeti o buffoni di corti e cortili: uomini con i loro gesti, i loro silenzi, le loro fragilità e qualità, con la loro umanità. E questa poesia di Zagajewski mi pare che esemplifichi splendidamente quello che ho in mente; anzi, leggendola nella bella traduzione di Valentina Parisi, curatrice dell’ultima antologia del poeta polacco, Prova a catare il mondo storpiato (Interlinea, Novara 2019), mi pare che aggiunga qualche elemento di riflessione su quello che la poesia può dire in questi giorni in cui la nostra vita sembra sospesa in un’atmosfera di attonita e straniante incredulità.
Dunque, come e quando nasce una poesia? Che cosa si chiede a un poeta? Oggi c’è il coronavirus, e qualcuno potrebbe chiedere al poeta di dire la sua. Facile che, in un accesso di narcisismo, qualche poeta non si limiti a dire quello che pensi, ma lo metta in versi, ed è facile che cada nella trappola di una retorica da salotto. La poesia su commissione esiste, purtroppo, ma non è poesia, magari è materiale per studi antropologici. La poesia nasce, più semplicemente, in un’occasione. A quanti, allora, non è capitato di prendere un aereo per un viaggio più o meno lungo, e non potersi permettere la prima classe dove si possono allungare le gambe, scavallarle, rigirarle, fino a prendere sonno? Eccoci, invece, nella economy class: sedili angusti, con una mobilità rigida, a stretto contatto con il vicino che ha i nostri stessi problemi. Ci siamo portati un po’ di libri, il finestrino è lontano, viavai continuo di passeggeri inquieti, una nebbia variabile di sonno e insonnia ecc. Intanto, un pensiero si fa strada, e ci invita a riflettere su noi stessi, sul senso di quello che stiamo facendo, su dove stiamo andando. Ogni viaggio apre uno spiraglio nella coscienza del Sé, che assapora il contorno metafisico di quel momento consueto, in fondo ordinario. Non c’è modo di scrivere, ma qualche appunto lo prendo, su un foglio, su un tablet; ed è come una leggera crepa dalla quale, a poco a poco, cominciano a sgocciolare e a defluire altri pensieri, che cominciano a organizzarsi in immagini, intorno alle quali sgorgano altri pensieri, nuove riflessioni, e quello che all’inizio sembrava solo una divagazione diventa un discorso con e su se stessi, un “autoritratto” (un genere che a Zagajewski piace molto) che supera la soglia della privacy e si presenta a dei potenziali lettori, i quali giudicheranno la capacità del soggetto che dice io di non salire sul piedistallo e impugnare il megafono, ma di mettersi a nudo (eccolo «rattrappito come un embrione»), sostenendo, nel corpo a corpo con ogni parola con cui egli scava nel suo abisso, lo sguardo della verità.
Quale verità? Non ci si arriva subito. C’è un percorso da fare, il poeta parte da lontano, e tanto per cominciare ci fa notare che la posizione scomoda («pigiato in un sedile stretto») non compromette la facoltà della memoria: la quale, affatto sorda al rollio incessante della fusoliera, dipana un paesaggio d’altri tempi, d’altre stagioni: «il profumo del fieno fresco», «i carri di legno» che «scendono a valle dagli alpeggi / slittando sulle strade campestri», quand’ecco «un grido spaventato» interrompe la catena dei ricordi e a sua volta risuscita un cimelio letterario (l’Iliade), rimanda a un evento storico (le crociate), per concludersi in un’osservazione di costume (gli uomini gridano sempre così «quando nessuno li ascolta»). Forse il poeta è «stanco», e il suo pensiero torna «a ciò che non si / lascia pensare – al silenzio che regna / nel bosco, tra gli uccelli dormienti, / alla fine dell’estate che si avvicina». Nessuna traccia dell’aereo, né dei compagni di viaggio, tantomeno delle innumerevoli comunicazioni, comprese quelle relative all’acquisto di prodotti superflui, somministrate in volo ai passeggeri. Nessun accenno alle ragioni di quel viaggio, alla sua meta. Nella condizione esistenziale che il poeta ci descrive si realizza, insomma, una sorta di astrazione metafisica del topos del viaggio, vissuto nella sua temporalità sospesa, che, in assenza di alternative (evidentemente non è possibile scendere, né cambiare rotta, né scendere…), produce un vuoto spinto; ed ecco la stanchezza, con i suoi sintomi di sonnolenza per tedio, inedia: «Mi tengo la testa tra le mani, / quasi a proteggerla dalla distruzione». Ma il poeta rincara: «Visto dall’esterno appaio senz’altro / immobile, pressoché esanime, / rassegnato, degno di compassione». In quella visione esterna abbiamo l’immagine di un essere vivente la cui pesante immobilità, se che in qualcuno susciterà l’idea di un decesso silenzioso, è in verità solo l’espressione di una rassegnazione. Il poeta, però, non cerca questo: non vuole affermare la sua “differenza” dal genere umano invocando una forma di attenzione premurosa e pietosa alla sua condizione. Continua, infatti, a tenersi fra le mani anche nell’ultima strofa: sarà il caso di chiedergli se si sente bene, e di chiamare una hostess? Sicuramente, egli non si sente l’albatros di Baudelaire che, dopo aver sorvolato con superbia le acque dell’oceano, zampetta sulla stiva in maniera ridicola. Paradossalmente, il poeta sta benissimo! Anzi, è «felice», perché è «libero»: la sua testa è pesante, sì, sta concependo una poesia!
Possiamo leggere la situazione poetica ora descritta anche in una forma che possiamo definire allegorica, se pensiamo che, in fondo, di questo viaggio in aeroplano non si sa niente, perché fu solo uno dei tanti, se non che esso costringe il protagonista della poesia a una riflessione tale sulla propria condizione da cercare una via di fuga, un’evasione, ma solo apparente, dal momento che lo riconduce al centro del suo essere, ovvero alla certezza della sua libertà: scrivere una poesia in cui è possibile recuperare non solo un’imagerie mentale, stilizzata in base alla grammatica di un idillio infantile perduto, ma anche quella capacità di “dis-senso” (tutt’altra cosa dal non-senso) del suo stare qui, del suo da-sein: l’efficientissima macchina aerea che trasporta il poeta, come un embrione incapsulato e rassegnato, lo protegge, portandolo a destinazione, ma non lo possiede. Così come io, mentre scrivo queste cose, in queste ore, asserragliato entro le mura di casa, resto comunque libero, dissentendo dalla sensazione di essere imprigionato.
Sono sicuro che quando Zagajewski scrisse, anni fa, questa poesia non pensava affatto che qualcuno avrebbe potuto leggerla per difendersi da questi giorni di assentita, e responsabile, “domiciliazione coatta”. Ma è qui il valore della grande poesia, nella testimonianza di una condizione esistenziale che supera i limiti della stessa “occasione” in cui fu scritta, e trascende l’orizzonte dell’io empirico che ne fu l’autore. In ogni poesia vi leggiamo qualcosa che può accadere in qualsiasi momento, anzi accade sempre; e se noi siamo qui, dove essa accade (per usare parole di Emmanuel Lévinas, cui pure ricorre Zagajewski), è perché, e lo dimostra quel passeggero che non sa dove va, «la vita vera è altrove».