Giuseppe Conte, Non finirò di scrivere sul mare, Mondadori 2019
Non finirò di scrivere sul mare.
Non finirò di cantare
quello che c’è in lui di estatico
quello che c’è in lui di abissale
la sua vastità disumana
senza pesantezza, senza un vero confine
la sua aridità senza sete, senza spine
le sue forme in perenne mutamento
sottomesse alle nuvole, al vento
e al cammino in cielo della luna.
Non è solo il poema del mare quello che Giuseppe Yusuf Conte ha scritto con il suo ultimo libro di poesie, è anche il poema della vita sospesa, la vita perduta e ritrovata, perdizione e salvezza, la vita comunque vissuta, fra ricordi che riemergono e sogni che fuggono, in mezzo alle onde che vanno, senza limiti, senza risposte, fuori da ogni spazio e da ogni tempo, eternamente libere, come il canto di un poeta, come la vita contraria, ferita, e l’impossibilità di cambiare perché “ancora oggi che l’età mi preme/ sulle spalle e mi piega […] per me l’unica meta è stata vivere – e amare sempre, e scrivere –“ .
Il poeta è inabissato nelle profondità del mare, fra preghiere di libertà (“Sii sempre mare. Insegnaci/il desiderio di libertà infinita/il sogno di varcare sempre frontiere”) e invocazioni di pietas per drammatiche realtà del nostro tempo (“Chiamali per nome, mare/chiamali tu tutti gli annegati/disfatti sui tuoi fondali,/questi non erano marinai,/questi non erano soldati,/- erano poveri, erano uomini –”).
Giuseppe Conte ci riporta al sogno dell’esistenza e al suo mistero, con un linguaggio che emoziona, nella sua ricerca ostinata, necessaria di un altro sentire: solo e libero nel suo mare, ma senza nessuna Itaca nella sua vita, la sua voce non finisce di invocare la bellezza, l’amore, perché – comunque sia – “è stato bello anche così viaggiare”.