I non detti di Eleuterio Da Sibari
Diceva bene Eleuterio da Sibari che muore in pace colui che vive, non colui che sopravvive.
Non ricordo in quale libro ho letto questa frase, se l’ho trovata su internet o mi è rimbalzata dalla televisione, o se me la sono sognata. Figuriamoci se per ogni frase devo controllare la fonte, per capire se dice cose vere o meno. Giovanni, il mio miglior amico, è anche uno scrittore che la sa lunga. All’inizio ci teneva molto che non si dicessero stupidaggini sul mio conto, ma poi – mi ha confessato – ha dovuto arrendersi, allorché ha constatato che proprio sul suo conto le favole che si raccontavano erano ancora più incredibili! A tal punto che aveva deciso di gettare in un camino tutto quanto aveva ancora nel cassetto, e di ritirarsi in qualche convento per dedicarsi alla lettura dell’erbario di Dioscoride di Vienna.
Oggi vive sereno, si è riconciliato con se stesso; scrive poco o niente, ma conserva una curiosità insaziabile. Quando gli ho chiesto, pochi giorni fa, se conosceva quel detto di Eleuterio da Sibari, ha trasecolato. Mai sentito. Sei sicuro di questo nome? Che non si tratti di Carneade? Dove l’hai sentito? E così via… O forse, ha aggiunto dopo una lunga pausa, forse non è un detto ma un “non-detto”? Fai una ricerca su internet, dimmi che cosa ti esce, io ho qualche dubbio… Sai, a forza di essere detto e ridetto, anche un non-mai-detto diventa “detto”.
Che bel gioco per ammazzare il tempo! Siamo sicuri che non sia un’illusione quello che noi sappiamo di noi e di questi tempi strani? e che quello che diciamo non sia stato già detto, e non scomparirà nel non-detto-di-sempre? Quanto tempo abbiamo per indagare? Dopo la solita mezzora di stretch e jogging intorno al tavolo, la doccia emozionale, l’automassaggio con cubi, raschietti e bastoncini; dopo la giornaliera pulizia dei pavimenti e lucidatura dei vetri; dopo aver messo a posto gli album delle foto, i golfini, i cuscini, i barattoli di pelati e di legumi in ordine di scadenza; dopo aver riordinato i farmaci in ordine di gravità e urgenza; dopo aver stanato i bauli che affollano lo sgabuzzino con i vari residuati bellici di qualche bisnonno e i gagliardetti di balilla e le fionde e gli slittini di molte epoche fa, dopo essermi lavate venti o trenta volte le mani con sapone amuchina varechina acquaragia acquavite e quant’altro – resta un po’ di tempo per indagare? Navigando in internet il tempo passa presto, e si trova sempre tutto e il contrario di tutto. Come se io potessi sposarmi, nella mia vita, e contemporaneamente non sposarmi, finire questo racconto e continuarlo, essere e non essere… Infatti, su Eleuterio da Sibari ho fatto le mie ricerche e ho trovato che, nonostante probabilmente egli non sia mai esistito, avrebbe scritto diverse opere; molte delle quali ai suoi tempi andarono a ruba, perciò alcune non si sono più trovate. Cito a casaccio:Perché con una mano togli e con l’altra dài; Se gli uomini sono fatti per le regole o le regole per gli uomini; Come mai il metodo per potare la pianta è uguale a quello per potare la società. Dopo un breve incarico al dazio della dogana del porto di Metaponto, Eleuterio si cimentò in un’autobiografia ispirata a Schopenhauer, L’arte di restare stranieri ai confini del mondo, e redasse una curiosaGrammatica dei vagiti neonatali,tradotta in settanta lingue, comprese quelle morte; inoltre, gli viene attribuita un’operetta apocrifa in latino di cui si sta approntando un’edizione critica, Quod omnis probus liber sit.
Altre prove? La più recente è data dalla testimonianza di una Cronaca anonima della Trinacria solatìa: una volta, passando da Siracusa, poco prima che cadesse in mano ai Romani, durante le feste di Dioniso, dovette fermarsi alle porte di Gela perché era scoppiata l’ennesima epidemia. Le autorità avevano dato ordine agli abitanti di tapparsi in casa e agli stranieri di non avvicinarsi alla città. Eleuterio non diede molto peso a tali notizie, e giunto alle porte non incontrò alcuna guardia: le porte erano appena socchiuse. Le varcò, si mise sulla strada grande che portava direttamente all’agorà; affrettò il passo come se avesse un appuntamento, ma era solo il tarlo del dubbio che lo rodeva. Ovunque si affacciasse, la sua eco si perdeva sotto i portici e nei vicoletti laterali. Tutti morti o tutti nascosti? No, le feste non si sarebbero svolte, quell’anno, nessun reading, nessun festival. Addio torte salate e dolci tipici, addio sbronze solenni, addio compagni di pigiama party. Si fermò all’improvviso, cominciò a sentire uno strano odore: era l’odore della Morte… Perché rischiare? Riprese la via del ritorno. Giunto in locanda, si ritirò in camera dove compose dei versi che suonavano pressappoco come un elogio al coraggio di aver paura, o alla paura di aver coraggio, che la popolazione di Gela dimostrava di avere rintanandosi a casa contro il pericolo del letale contagio. Qualche giorno dopo, Eleuterio, per arrivare a Siracusa, prese un tratturo battuto solo dagli asini. Alla fine di una serie di tortuose e assurde deviazioni, verso il tramonto, sbucò alle spalle della città, e rimuginando fra sé sull’esperienza vissuta concluse: “Come dice il mio amico Antonio da Neapolis, io non so se l’erba campa e il cavallo cresce, ma bisogna avere fiducia!”. Che esempio luminoso il nostro Eleuterio! Chi sa quanto sospirò la sua cara Sibari in quei momenti difficili.
«Bella questa storiella», esclamò Giovanni, «…non è che te la sei inventata?», aggiunse sorridendo soddisfatto, «La citazione finale di quell’Antonio credo di averla già sentita a Napoli qualche anno fa… E comunque», sentenziò sornione, «Eleuterio significa “libero” in greco, e liberamente il nostro sofista avrà inventato molti fatti della sua vita…».
Rimasi un attimo, che durò un secolo, in silenzio. Non era importante quanto fosse vero ciò che avevo raccontato, ma perché sentissi il bisogno di raccontarlo. Se esiste una proprietà transitiva del racconto dovrei dedurre che come Eleuterio è proiezione del mio desiderio, così anche io sono proiezione del desiderio di qualcun altro? Invece di indagare su Eleuterio, avrei fatto bene a concentrarmi su me stesso, ne avevo tutto il tempo. Un giorno mi deciderò a farlo, cominciando ovviamente da internet, in attesa che le biblioteche riaprano al pubblico. Che imbarazzo mettere il proprio nome come parola chiave! È come chiamarsi con uno specchio alle spalle, attendere un attimo e poi voltarsi: e se apparisse qualcun altro? E com’è triste inserire altre parole cui sono affezionato, o i nomi dei miei parenti dei miei amici, dei luoghi dove sono stato o credo di aver vissuto… E se io non esistessi e fossi solo un’invenzione letteraria? Ammesso pure, è vantaggioso crederci? Va bene, qualcosa mi tiene in vita, ma non so cosa. Forse la voglia di vedere se un giorno finalmente tornerò a camminare per il gusto di camminare, e a incontrare gente in strada e nelle piazze, tra negozi e parchi aperti, gente che beve ai bar, studenti chiassosi che sciamano all’uscita dalla scuola e chiacchierano sulle panchine, ragazzi che si abbracciano e si baciano.
Chiacchierando così al telefono, venne l’ora del tramonto, e la voce di Giovanni cominciava a intiepidire. Lui sì che se ne intende di pesti: “Le peggiori sono quelle in cui gli uomini muoiono come mosche e si limitano a sopravvivere come vegetali, e tu racconta, scrivi… Vuoi dire tu la verità? Ma è lei che ti fa parlare…” Che io sopravviva o viva, ogni volta che faccio due chiacchiere con lui, mi viene una strana voglia di guardare avanti e di ricominciare.