Il Papa, la Sinistra e quel che resta di noi
“Quelli che hanno qualcosa da perdere, e che la stanno perdendo”. È la penultima frase, quella che lancia la chiusura del pezzo. Adriano Sofri come fa di solito, fingendo di passare per caso, la mette giù e adesso tocca a noi. Quelli lì: la fisionomia più antica di ogni cenno di rovesciamento. A guidarci in genere sono stati donne e uomini che conoscevano bene il significato di nutrimento e descrivevano meglio l’assenza delle più minime speranze. Guidarci vuol dire tante cose: ispirarci, fornirci ragioni e forconi. Ma anche consapevolezza del bene che potremmo ottenere e del male che potremmo fare. O dente o ganascia. Piaceva molto ad Aldo. Ne rideva e muoveva la mascella a zigozago. Ma si, o dente o ganascia. Le più volte sarebbe stata ganascia. Altra cosa è la preghiera, l’esempio su cui poggia, la ridondanza del gesto. Cose di cui non so. Più di altre cose che non so.
Il mio non essere credente non mi ha sottratto al fascino che alcuni credenti hanno sempre esercitato su di me. Fin da piccolo schernire i bigotti ma tenere in considerazione gli esempi di pratiche gentili mi veniva naturale. Poi ho sentito che la fede non era un dono che mi aveva sfiorato restando più povero e più scanzonato. Peccato. Papa Francesco mi piace dal suo prima “buona sera”. Quando fino al 2018 frequentavo Roma ai piani alti e capitava che avessi un po’ di tempo, andavo a piedi da viale Mazzini a San Pietro, girellavo intorno alle colonne del Bernini, mi promettevo di fare la fila, di entrare, di inginocchiarmi laicamente in omaggio alla Pietà, di chiedere scusa tra me e me per tanta ignoranza. Ma non l’ho fatto e di questo, penso, dovrei chiedere scusa a me stesso. Francesco mi piaceva e ne comprai un ritratto che da allora mi guarda dalla pila di pizzini su cui l’ho appoggiato. Capita che gli sorrida, e in un periodo come quello che stiamo attraversando, lo sento ogni mattina pregare amplificato dalla rete ammiraglia della Rai, lo scorgo che insieme a galeotti e infermieri si riferisce anche a me. In quel coro si riconoscono gli occhi macchiati degli ultimi. Le tracce di una sofferenza che trascina e travolge bambini, donne e uomini vecchi, ma anche no. Giovani quando non giovanissimi che avrebbero la forza per riempire la propria vita di imprese audaci, che avrebbero sangue e cuore e domande difficili da formulare a cui provvedere con risposte misurate e comunque sempre attese. Quello il lato del coro accolto con gioia in una casa abitata. Mi pare, abitata.
La Sinistra che ricordo, è nella condizione di vita, prima che nella speranza di vivere a lungo. La sinistra raccoglie il peso delle catene e il respiro cupo che racconta lo sforzo per spezzarle. Gli interessi di chi non ha che lacrime e sangue e un percorso obbligato. Finché l’ultimo non sia liberato. Il punto estremo del più fondato estremismo. Non so come ma si tratta del figliol prodigo. È tornato. Il piacere è nell’accoglienza che gli è riservata, negli inchini, nei brindisi, nei canti e nei doni. Intanto in casa c’era il fratello che non si era mai mosso. Il fratello che aveva rosicchiato il tempo provvedendo a se stesso e a quel che sembrava utile e diviso con tutti. Era stato fermo nel diritto acquisito al tetto e al letto. Si era allargato nella sottoscrizione di mutui su lavori che invecchiavano prima, che sfumavano. Era salito di qualche piano l’ascensore sociale e con lui nuovi vizi e rare virtù. Ma il fratello del figliol prodigo mugugna e mal sopporta.
Non so se sia pronto, sono certo che sia predisposto. Rovesciarsi in strada, sui vicini, sul prossimo. Fiamme alte illuminano l’orizzonte?
Ed eccoci a quel che ci attende. Forse farei meglio a dire a quel che vi attende. In questo senso provo un certo fastidio, un dolore: lasciarvi soli ad affrontare quel che temo. Allora mi attacco con tutte le mie forze, appellandomi alla demenza che so che incombe in aiuto all’ignoranza, all’improvvisazione di un pensiero. Ci attende il peggio. La carestia, la cattiveria, il sopruso. Ci attende la resistenza, la ricostruzione di filiere, di valori che una volta condividevamo. Nelle catacombe, nelle prigioni, nei campi di sterminio, nelle fabbriche, sui tetti con la bandiera tricolore e noi a ripararsi dal sole con cappello di carta di giornale piegato e ripiegato a barchetta. Si vedeva però che quel giornale era l’Unità e noi eravamo comunisti. Si prima di sapere, prima di abbandonare quella condizione, prima di fare uno o due piani con quell’ascensore che da via Sant’Agostino portava in via Parrini, appena sotto il viale delle Piagge.