Omaggio boccaccesco
Chi non ha conosciuto il niente come può avere un’idea di come si governa?, disse alcuni anni fa Sir Tomas Pósthumous in un’intervista a Vanity Fair, sicuro che nessuno l’avrebbe compreso. Neanche io lo capii, ma il mistero di quella frase me lo sono cullato fino a oggi che è stato approvato il sesto comma all’articolo centocinquanta che prevede l’abuso di spritz all’aperto purché a distanza di un metro e ottantuno centimetri l’uno dall’altro, e autocertificazione a portata di mano.
Dal terrazzo vedo la notte primaverile scendere sulla città come un lenzuolo di silenzio che restituisce la distanza delle cose. Chi in tutto questo tempo ha imparato a contare i passi dalla cucina all’attaccapanni o dallo scendiletto allo sciacquone, sa cosa voglio dire. Quanti passi ci saranno dal bancomat al primo distributore di benzina? Quanti fra il giornalaio e la fermata dell’autobus? Io ho sempre con me il metro a nastro retrattile di cinque metri, all’occorrenza. Ho usato quello da sarto per un po’, poi il righello pieghevole in legno di foggia, poi il metro-laser e quello in uranio depotenziato per gli spazi siderali. Alla fine, bisogna accontentarsi. Le distanze più difficili da misurare sono quelle interiori: quanto sono lontano da quello che io ero una volta? La notte che oggi sento profumare di acacie nell’aria immobile e tersa, inconsapevole della nostra irreversibile, e non so se prossima, estinzione, è la stessa che sentivo aleggiare, una volta, sopra una città fremente di ambizioni malate e crudeli? O è solo un ricordo di pace che proietto nel futuro? Una metonimia del letargo che ci aspetta oltre questa vana e transitoria parvenza della vita? E le tante finestre, le vetrine spente di case, palazzi, negozi, non danno un’idea di cosa voglia dire spegnere i neuroni di un cervello che un tempo lavorava tutto il giorno? Forse quelle poche che appaiono illuminarsi non mi ricordano i sempre più scarsi neuroni di un cervello che a mala pena riesce a sognare di notte? ma dove sono questi sogni se proprio i suoi neuroni ora giacciono nel buio?
È più di una fuga, ciò di cui ho bisogno: forse è un’utopia, o più semplicemente, un motivo per esistere lasciandomi alle spalle quel che oggi continua a sprofondare in un inconsolabile abisso senza luce né pietà. Giovanni me lo dice sempre: ce l’hai sotto il naso la soluzione, non ti sbracciare più di tanto. Ma lui può permettersi di fare il vecchio saggio, io no. Io non sono né vecchio, per ora, né saggio. Per la sua veneranda età deve solo stare attento a non uscire non più del necessario. La spesa se la fa portare, se e quando ha fame, e comunque mangia poco: asparagi, radicchio, cicoria, cipolle, fragole… Gli basta l’ortolano in fondo al vicolo. E ha tanti lavori da portare a termine prima che venga l’angelo a portarselo via. Ha chiuso con le donne non so da quanti anni: si limita a una badante che gli ramazza la casa e risistema quelle due cose da lavare e da stirare. Non è solo il mio maestro, ma un padre che non vuol essere tale, e perciò mi manca ancora di più. Mi ha insegnato a capire quello che sono e quello che non potrò mai essere. Mi ha dato una ragione per esistere e per sopravvivere a me stesso. E siamo rimasti in pochi a credergli: in fondo, per quel che ha scritto, ha cercato sempre di evitare di parlare di sé stesso parlando degli altri, e non per proteggere sé dal mondo, al contrario, per proteggere il mondo da questo ingombro che si chiama io; e però, in questo modo non ha fatto altro che mettere delle distanze fra sé e il mondo, sì che alla fine pochi l’hanno capito. Qualcuno ha pensato che fosse stato pagato dalla Camera di Commercio di Firenze per scrivere un’epopea dei mercanti! Altri, invece, hanno tirato fuori dalle sue pagine solo le storie più licenziose e porcellone! Ma io alla fine l’ho capito: ha scritto solo per pietà nei confronti della morte. Gli ho chiesto se valeva la pena che lui se ne andasse così, in punta di piedi, da questo mondo, e dove avesse dimenticato Dio, tra l’inutile morte di Elisabetta e la folle fedeltà di Federico, e se c’era più vita in una stagione lieta e ingenua della vita o in una partita senza speranza, tirata fino all’ultimo minuto, con il destino. “Tutto il mondo è vita, e niente è mondo”, mi ricordava, mentre nell’ombra del suo studio sprofondavo in un vecchio seggiolone colmo di cuscini di varia misura, e intanto sopraggiungeva l’ora di un dolce e infinito crepuscolo che si spegneva dietro l’orizzonte delle Badie, la Val d’Elsa, San Miniato.
Di tanto in tanto gli telefono, ma non è come averlo davanti agli occhi, e sentirlo con le orecchie, seguirlo passo passo, porgendogli l braccio, con una voce che avvolge le cose e trema di una misericordia divertita, perché l’uomo è quello che è, e la donna pure. Sono rade telefonate per dire solo che esistiamo, e non cessiamo di pensare che questa distanza un giorno svanirà come un brutto sogno, e toneremo ad abbracciarci. Come se nulla fosse avvenuto.
Ma non sarà così, perché qualcosa è avvenuto. Nell’ultima telefonata aveva fretta, non di chiudere, ma di aprire un’altra conversazione, su quell’esperienza del “niente” che oggi sempre più manca. Esperienza, magari. Esperienza del dolore, della sofferenza, della morte. In fondo, basterebbe un presentimento, un presagio. Una premonizione che quel che avviene è già avvenuto e avverrà sempre. Nell’ultima telefonata, c’era un altro pensiero ad attraversagli la testa, mentre mi spiegava come preparare gli asparagi con mandorle e capperi. Forse quello di una donna che lui aveva sempre creduto di aver abbandonato, e che forse non era mai riuscito davvero a lasciare, portandola con sé, ogni notte, nell’ombra che lo seguiva, e perdendone le tracce in un colloquio solitario su quel poco che giorno dopo giorno era riuscito a sottrarre all’oblio; era qui tutta la sua libertà. “Fai anche tu così, finché sei in tempo”, concluse. Non si tratta di scrivere un libro. Giovanni sa bene che io so a mala pena tenere la penna in mano, e i pensieri li disperdo cammin facendo, appena chiudo la porta di casa o l’angolo di una via. Ma dove si può trovare un luogo più fresco e divertente di quello di un libro? Un luogo dove essere o non essere asintomatici non serve, e il virus più diffuso e potente, quello della stupidità, per cui non esiste alcuna possibilità di vaccino, è sconfitto in due parole e deriso. Allora ho inteso quello che voleva dirmi: devo gettarmi con tutto il cuore nel libro dal quale vengo, nel quale sono nato, perché laggiù non c’è pericolo di contagio, nessuno può dirmi resta a casa perché tutto il mondo è casa.