L’ora estrema di Friedrich Hölderlin
Der Herbst
Die Sagen, die der Erde sich entfernen,
Vom Geiste, der gewesen ist und wiederkehret,
Sie kehren zu der Menschheit sich, und vieles lernen
Wir aus der Zeit, die eilends sich verzehret.
Die Bilder der Vergangenheit sind nicht verlassen
Von der Natur, als wie die Tag’ verblassen
Im hohen Sommer, kehrt der Herbst zur Erde nieder,
Der Geist der Schauer findet sich am Himmel wieder.
In kurzer Zeit hat vieles sich geendet,
Der Landmann, der am Pfluge sich gezeiget,
Er siehet, wie das Jahr sich frohem Ende neiget,
In solchen Bildern ist des Menschen Tag vollendet.
Der Erde Rund mit Felsen ausgezieret
Ist wie die Wolke nicht, die Abends sich verlieret,
Es zeiget sich mit einem goldnen Tage,
Und die Vollkommenheit ist ohne Klage.
L’autunno
Le leggende che lasciano la terra
dello spirito che è stato e farà ritorno
all’umanità si rivolgono, e bene lo impariamo
dal tempo che si consuma rapidamente.
Le immagini del passato la natura
non abbandona, così come i giorni sbiadiscono
in piena estate, l’autunno scende sulla terra,
ancora in cielo lo spirito delle piogge si ritrova.
In poco tempo molte cose hanno avuto termine.
Il contadino, che si presentò con l’aratro,
vede come l’anno al lieto fine stia volgendo.
La giornata dell’uomo si compie in tali immagini.
Il cerchio della terra di rocce trapuntato
non è come la nuvola che a sera si disperde,
con un giorno dorato si rivela,
e la perfezione è senza lamento.
Collocare Hölderlin alle fondamenta della poesia moderna è più che legittimo, e le ragioni sono state più volte percorse e spiegate dagli studiosi del grande poeta tedesco. Ma vi è un aspetto, in particolare, che riaffiora con un’evidenza drammatica, e continua a spaesare ogni lettore, ogni qual volta se ne tenta la comprensione, ed è quel campo di tensione tragica, sbrigativamente liquidata come “follia” (schizofrenia catatonica diagnosticarono gli esperti), in cui Hölderlin trascorse metà della sua vita: siamo davanti al primo poeta “maledetto” della modernità o all’ultimo poeta di una società aristocratica che presente la modernità trascinandosi ai suoi margini, “sorvegliato e punito”? Se è giusto sorvolare in questa sede sulle definizioni (non di rado provvisorie, quando non discutibili) di una sofferenza profonda, e quindi sull’effettivo legame che può avere il disagio psicologico sulla creatività artistica, mi pare che non vada trascurato il fatto che l’isolamento in cui si chiuse la vita di Hölderlin, nei suoi ultimi trentasei anni, dal 1807 al 1843, non ha strozzato la sua vena poetica, a riprova di quella “poiesis intrinseca all’esistere” di cui parla Andrea Zanzotto nelle prime pagine del suo memorabile intervento sull’autore dell’Hyperion. Insomma, se quel che viene diagnosticato come follia è solo un altro modo di condurre l’esistenza, che non intacca le basi della creatività poetica, svalvolando in un narcisismo frustrato, non ne estirpa le radici, evidentemente occorre guardare alla poesia come a un “dono” (se il termine non suona un po’ d’antan) che una volta ricevuto non può essere frettolosamente ricambiato.
Perciò nell’omaggiare Hölderlin, non ho esitato a scegliere un suo componimento risalente agli anni della così detta Torre, la stanza detta così dal retro a forma circolare, all’ultimo piano della casa in cui il buon Ernst Zimmer accolse il poeta a seguito del verdetto di demenza immedicabile: Der Herbst, ‘L’autunno’. Ma che cos’ha veramente di “autunnale” questa poesia scritta dal vecchio Hölderlin, di là dalla convenzionale metafora anagrafica? Non si può nascondere che nel titolo si annidi un’allusione a quella stagione artistica del vedutismo che contrassegna l’intero Settecento, e che entra, come un desiderio di “libertà” (quella di affacciarsi almeno alla finestra, di prendere aria esercitando lo sguardo sul paesaggio) nella produzione lirica degli ultimi anni del poeta. Ma è lo sguardo di Friedrich o del suo fantomatico alter-ego, Scardanelli, che firma i testi “mit unterthänigkeit”, a restituirci questi orizzonti, fra le stagioni che si avvicendano, e quel desiderio di “in(de)finito” che negli stessi anni Giacomo Leopardi provava dietro una siepe? Wilhelm Waiblinger, biografo del poeta, scriverà: «A volte Hölderlin si sedeva di fronte alla finestra aperta e magnificava il panorama con parole comprensibili. Notai anche che quando era immerso nella natura, aveva un rapporto sereno con se stesso…» (Vita, poesia e follia di Hölderlin).
Dunque, non quale autunno ma quale serenità spira da questa poesia che sarebbe facile assegnare a una nuova fase di rimodulazione classicistica delle inquietudini romantiche di un poeta che in giovinezza aveva sì compiuto ottimi studi classici, senza disdegnare la lettura dei Canti di Ossian? Bisognerebbe uscire da certe schematiche contrapposizioni, e non lo dico solo per i nostri maggiori poeti vissuti a cavallo tra due epoche, ma per tanta letteratura europea, che viaggia di pari passo, e a volte con qualche marcia in più verso una “modernità” che non significa solo coscienza del nuovo, ma anche sentimento della sua prossima perdita. La vicenda di Hölderlin si colloca all’incrocio fra le grandi strade della cultura europea: quella tradizionalmente impostata sugli studi umanistici del mondo classico, e quella che si apre all’indomani della prima rivoluzione industriale e della rivoluzione francese, cui vanamente si opporrà il revanchismo dei nostalgici dell’Ancien Régime. Amico di liceo di Hegel e Schelling, dopo la laurea in teologia, Hölderlin si porta a Jena dove conosce Schiller, Novalis e Goethe, per ricordare solo i nomi più importanti. È un crogiuolo intellettuale eccezionale, quello nel quale il bellissimo giovane Friedrich affila le armi della sua poesia, e si butta in un amore disperato (quello per Susette Borkenstein, detta Diotima) che forse segnerà, come un detonatore a orologeria, il suo precario equilibrio interiore, e trasformerà la sua vita, da un’inquieta erranza alla ricerca di una sistemazione a una reclusione coatta, chi sa se per proteggere lui dalla società o la società da lui. Ed è proprio nella clausura di un alloggio luminoso, che affaccia sul Neckar e su un paesaggio in cui ogni stagione che trascorre di anno in anno assume le sembianze metaforiche della scenografia ideale in cui si svolge la vita dell’uomo – è in questo locus conclusus che Hölderlin precisa il divario tra l’“io” e il “sé”, tra colui che insegue da sempre la poesia, anche nella domiciliazione coatta, e colui che, registrato all’anagrafe come Hölderlin Johann Christian Friedrich, è diventato solo un fantasma sociale. Un divario che diventa lentamente una voragine, in fondo alla quale continua a scorrere il rivolo di una sorgente perenne, di una poesia che alimenta l’inappuntabile politesse di un uomo d’altri tempi, il quale ha perso tutto e tutti, come non di rado capita (neanche la madre andrà mai a trovarlo), tranne pochissimi amici, per una scommessa più alta, definitiva, sulla poesia.
Una scommessa perduta? Non si può dire. Probabilmente nella vicenda di Hölderlin potremmo leggere il destino della poesia moderna, costretta a chiudersi, all’occorrenza, in una torre non priva di finestre da cui osservare l’esterno, e qui cercare le parole di quella purezza che ci permette di immaginare paesaggi e di parlare del mondo, sognandone magari uno più vero e più puro. Ma se è vero che i versi di Der Herbst sono quelli di un’ora estrema della vita di Hölderlin, scritti intorno al 1840, pochi anni prima della morte, è anche vero che essi possono essere meglio compresi se collocati entro la cornice complessiva della sua opera che ha conosciuto pause ma non silenzi, e seppure non è riuscita a vedere la luce a tempo debito, onde ricevere la giusta fama, si è svolta come un lungo inesausto laboratorio che è andato ingrossando nella seconda parte della vita – là dove ci si sarebbe aspettati un inaridimento – fino a esplodere in molteplici direzioni di lavoro, quasi a prefigurare il vero lavoro del poeta: non cercare la notorietà, la vetrina, ma concentrarsi sulla ricerca, nel tentativo di districare il groviglio di tensioni interiori, cui ognuno può assegnare le più svariate etichette (classicismo inquieto, preromanticismo, romanticismo classicista, ecc.), in una dimensione poetica originalissima, nella quale il “sentimento” (in senso schilleriano) della cultura classica varca la soglia della nostalgia erudita e spinge all’azione politica (penso alle adesioni e alle testimonianze di solidarietà che ebbe, tra gli intellettuali europei, la guerra d’indipendenza dei Greci contro l’Impero Ottomano). Ecco allora, venendo a Hölderlin, i Canti della Patria, in cui il concetto di Patria va inteso, lungi da ogni bieco sovranismo, come Heimat, dimensione utopica di una casa-patria-luogo dove l’uomo torna dopo aver spezzato le catene delle gerarchie sociali con una pacifica rivoluzione interiore, in nome di una libertà di coscienza che è il frutto di un rinnovamento spirituale che lega il presente all’antico, e guarda al futuro, anche se non può ancora intuirne l’accelerazione storica che già nel corso del sec. XIX conoscerà.
Dunque, il “sogno” della classicità nel seno di una società che assiste a una rapida trasformazione delle sue strutture politiche, sociali ed economiche, e si presenta come una risposta morale e politica – ma tutt’altro che nazionalista, semmai internazionalista – al desiderio di “radici culturali”, dal momento che elegge la Grecia come luogo dell’anima: cioè, non più l’Arcadia cui approda una élite egemone in fuga dalle brutture della storia, e dal turpe assedio della morte (Et in Arcadia ego), ma la Grecia che, occupata e umiliata dal Sultano, chiede aiuto ai fratelli europei (Et in Graecia ego?). Un luogo della storia, non solo del sogno, dove si dischiude il tempo in cui le parole pesano come le cose, ed è importante che qualcuno (il poeta, l’intellettuale) le sappia pesare, dal momento che è possibile leggervi la verità, anche quando crediamo sia stata nascosta o rimossa, e avvertire con apprensione la sempre più difficile salvaguardia del dono della poesia.
Se vi è una stagione, in L’autunno, essa è quella che porta frutti e speranze di una giornata nuova sulla terra, figura di un’epoca dell’umanità considerata non come una semplice somma d’individui, ma come soggetto collettivo e plurale nel quale ogni uomo può riconoscersi come in un tempo dello Spirito che tuttavia non può trascendere la Natura, nella misura in cui i valori che lo nutrono sono fondati proprio su di essa, ne percorrono le vie e le interrogano: «Täglich geh ich heraus, und such ein Anderes immer, / Habe längst sie befragt, alle die Pfade des Lands…» (‘Ogni giorno io esco, e ne cerco sempre un altro, / a lungo ho chiesto consiglio, a tutti i sentieri del luogo…’).